giovedì 21 maggio 2020
Il domenicano francese, residente al Cairo, muove dalla Lettera a Filemone per riflettere sull'approccio legalista che costituisce un tradimento del Vangelo
Padre Adrien Candiard

Padre Adrien Candiard - Emi

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Nel progetto relativo a I grandi filosofi Karl Jaspers previde di includere, nel terzo volume, la figura di san Paolo come “filosofo nella teologia”. Che l’apostolo delle genti, nella sua predicazione e nelle sue lettere, dimostrasse un non indifferente profilo speculativo è stato sottolineato in questi anni da vari studiosi, da Barbaglio a Scilironi e Tosolini. I quali hanno indagato le varie interpretazioni che numerosi pensatori contemporanei hanno offerto del pensiero paolino, a partire da Taubes fino ai più recenti Badiou, Derrida, Foucault, Zizek, Cacciari, Vattimo e Agamben.

Ciascuno di essi, perlopiù non credenti, ha valorizzato singoli aspetti dell’apporto teorico del convertito di Damasco, da quello politico a quello della carità. Paolo è l’ebreo che sulla scia di Gesù rompe con la legge, quale era intesa nel suo tempo, e indica la strada per tornare al vero spirito della legge stessa. Badiou ad esempio offre una versione secolarizzata del pensiero di Paolo, a suo parere simbolo ancor oggi di resistenza dinanzi al dominio delle multinazionali, ma anche delle rivendicazioni identitarie di oggi: egli si trovò di fronte al formalismo giuridico romano e a quello religioso ebraico e vi contrappose un’idea aperta e universale di salvezza.

Ma Paolo è anche colui che evidenzia la contrapposizione fra «la sapienza di questo mondo» e la «stoltezza» della fede, come scrive nella prima Lettera ai Corinzi. Ed è colui che non impartisce lezioni di morale, ma invita sempre alla libertà. Come emerge con chiarezza dalla Lettera a Filemone, in cui sollecita il discepolo di Colossi a riaccogliere il suo schiavo Onesimo, che si era rifugiato a Efeso, «come fratello carissimo». Non una battaglia ideologica o politica per l’abolizione della schiavitù, ma la sollecitazione alla fraternità cristiana, che certo non può contemplare che un uomo sia asservito a un altro che ne è padrone.

Da questa riflessione prende l’avvio Adrien Candiard nel libro appena tradotto da Emi col titolo Sulla soglia della coscienza. La libertà del cristiano secondo Paolo (pagine 128, euro 13). Qualche parola va spesa sull’autore, già noto al pubblico italiano per il testo Pierre e Mohamed, saggio dedicato alle figure del vescovo di Orano Claverie e del suo giovane autista musulmano, morti in un attentato di matrice islamista nel 1996. Dal libro di Candiard è stata ricavata una pièce teatrale, rappresentata con oltre mille repliche in Francia e nella stessa Algeria, dove è stata vista anche dalla mamma, dai fratelli e dalle sorelle di Mohamed.

Candiard, nato a Parigi nel 1982, nel 2006 si è fatto domenicano e da alcuni anni risiede al Cairo. Il libro su san Paolo è frutto di un dialogo realizzato nel 2018 con un gruppo di giovani cristiani francofoni della capitale egiziana. Ciò che colpisce nell’approccio di Candiard è la franchezza. Ripercorrendo l’episodio di Filemone e Onesimo, lo paragona alla famosa Leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij per far vedere come la Chiesa corra spesso il rischio di non valorizzare abbastanza la lezione di libertà che viene dal Vangelo. Proprio come accade nel caso della lugubre figura raccontata nei Fratelli Karamazov, troppo di frequente il messaggio di Gesù viene presentato come una morale da seguire.

Lo stesso Candiard si augura di non essere mai inquadrato nel «genere di spaventapasseri» dei preti e, dinanzi alle numerose richieste di fedeli che gli chiedono cosa è permesso e cosa vietato, avrebbe voglia di rispondere con Claudel che «per fortuna c’è Gesù Cristo che ci ha liberato dalla morale!».

Tornando alla Lettera a Filemone, l’autore rimarca «questo modo di invitare senza obbligare». È questo l’agire di Paolo: «Non è facile rispettare la libertà di Filemone aiutandolo a vedere la verità. Portarlo a fare il bene, senza ordinarglielo». Ma «la vita del cristiano è crescere nella libertà». Così, invece di imporre la sua volontà al discepolo intimandogli di liberare dalla servitù Onesimo, preferisce esortarlo «nella carità». Perché, aggiunge Candiard, «nella vita cristiana non esiste vita morale senza vita spirituale. È l’amicizia con Cristo a illuminarci su quello che è buono».

Qui entra in gioco la virtù della castità, che è rispetto dell’altro nella sua identità profonda, senza mai volerlo sfruttare per i propri fini. È la dimensione del distacco dalle cose, che non significa censurare il nostro essere fatti di carne. Lo mette in rilievo ancora Candiard, per il quale la castità «apre orizzonti che permettono di neutralizzare l’alternativa tra rigidità e lassismo nella quale, in questa materia, ci siamo troppo spesso bloccati». Alla fine, si torna al tema della libertà dell’uomo, a cui san Paolo richiama il caro discepolo: «Con la sua scelta di entrare nell’amicizia di Cristo, Filemone ha contestualmente perduto la facoltà di possedere schiavi: non c’è più nessuno sulla terra che possa essere ridotto a sua utilità».

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