lunedì 23 marzo 2020
Scomparso domenica a Roma all’età di novant’anni, fustigò l’Italia, proverbiale «Paese senza»
Alberto Arbasino

Alberto Arbasino - Archivio Boato

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Un Paese senza, signora mia. E la gita a Chiasso. Sono forse queste le più celebri fra le innumerevoli invenzioni linguistiche di Alberto Arbasino, il grande scrittore morto domenica a Roma all’età di novant’anni (era nato a Voghera il 22 gennaio 1930). Imprestiti d’autore, secondo una formula che forse non sarebbe dispiaciuta alla sua erudizione: espressioni sbocciate al crocevia tra invettiva civile e saggistica altezzosa e poi transitate nel parlare comune, in quello stesso gergo giornalistico che Arbasino non si stancava di contrastare impugnando la sua prosa imprevedibile, beffarda, inimitabile. Coniava locuzioni di cui altri – che spesso neppure lo avevano letto – si impossessavano, ma era anche abilissimo nell’impadronirsi di una frase fatta per poortarla alle sue estreme, letterali conseguenze. Lo aveva fatto, per esempio, in un piccolo libro di alcuni fa, La vita bassa, pubblicato dal 2008 da Adelphi, che da tempo era diventato – ed è rimasto – il suo editore d’elezione. In quelle pagine, come sempre indignate e scoppiettanti, Arbasino se la prendeva con la moda di aggirarsi con l’ombelico in bella vista e la trasformava nell’emblema della “bassezza di vita” in cui gli sembrava stesse inesorabilmente sprofondando l’Italia, il proverbiale «Paese senza» (sempre in affanno, sempre incompiuto, sempre mancante di qualcosa) per il quale nel 1963 aveva invocato la necessità della non meno famosa «gita a Chiasso».

Bastava allungare un passo al di là della dogana con la Svizzera, sosteneva, e insieme con il Toblerone e qualche stecca di sigarette si poteva rimediare un po’ di quella cultura del pieno Novecento di cui, all’epoca del boom, molti intellettuali italiani ancora si vantavano di non avere la minima nozione. Ribellandosi in parte all’origine provinciale che pure aveva ispirato uno dei suoi libri più noti (La bella di Lodi, uscito come romanzo nel 1972, ma portato sullo schermo da Mario Missiroli già nel 1963 sulla scorta dell’omonimo racconto), Arbasino aveva dato un contributo importante a questa operazione di svecchiamento, a cominciare dall’estroso excursus critico di Certi romanzi (1964), che Raffaele Manica ha giustamente voluto inserire nel doppio “Meridiano” di Romanzi e racconti realizzato da Mondadori nel 2009-2010. Da un lato agiva in Arbasino la suggestione di un cosmopolitismo elitario, coltivato sia attraverso la carriera accademica intrapresa per un certo periodo nell’ambito delle scienze politiche, sia attraverso i reportage internazionali firmati per alcune delle maggiori testate del dopoguerra, dal settimanale "Il Mondo" al quotidiano "Il Giorno". Ma questa fuga in avanti, nella direzione di una contemporaneità vertiginosa e disinibita, aveva come premessa irrinunciabile l’adesione alla tradizione della letteratura lombarda, lungo una linea che dall’illuminismo del prediletto Parini e dei fratelli Verri arrivava fino all’impetuoso magistero di Carlo Emilio Gadda.

Con Giovanni Testori, anche Arbasino era stato annoverato tra i «nipotini dell’Ingegnere», ma la definizione, per quanto non impropria, non gli corrispondeva del tutto, così come l’adesione alla neovanguardia del Gruppo 63 non era sufficiente a esaurire le istanze del suo sperimentalismo. Il rigore del saggista, appunto, era pressoché indistinguibile dalla libertà del narratore. E questo fin dagli inizi, fin dagli esordi di Le piccole vacanze (1957) e L’Anonimo Lombardo (1959), per arrivare al precoce capolavoro di Fratelli d’Italia, apparso per la prima volta nel fatidico 1963 e da allora più volte rimaneggiato, ampliato e rivisto, secondo una procedura caratteristica del lavoro di Arbasino. Un discorso analogo vale per Super-Eliogabalo (1969), di Fratelli d’Italia non meno caustico e scintillante, ricchissimo di citazioni, ammiccamenti colti, sfrontatezze che sfociano volentieri nell’irriverenza.

Irrequieto di natura, sempre in partenza per visitare una mostra o assistere alla “prima” in qualche teatro d’opera, Arbasino ha probabilmente dato il meglio di sé nei volumi che compongono la sua autobiografia di viaggiatore, come Le muse a Los Angeles del 2000 oppure Pensieri selvaggi a Buenos Aires del 2012, per arrivare al sostanziale congedo di Ritratti e immagini del 2016. Arbasino non amava il cattolicesimo e non ne faceva un mistero. Lo assimilava ai rituali di un perbenismo piccoloborghese di cui l’esclamazione «signora mia» rappresentava la sintesi. Però c’è un momento, nel libro di memorie dedicato al rapporto con Gadda (L’Ingegnere in blu, 2008), in cui anche questa avversione si attenua. È il 1973, il Gran Lombardo è sul letto di morte e Arbasino è fra gli amici che, a turno, leggono per lui un capitolo dei Promessi Sposi. Gli tocca la notte dell’Innominato: «Giunto al “delirio passeggiero”, una delle sue espressioni frequenti – ricorda –, l’Ingegnere mi guardò fisso, dicendo solo: “E adesso, le campane”».

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