venerdì 9 giugno 2023
Figura di spicco della scena intellettuale internazionale, è morto all'età di 97 anni. Sperava in una "ipermodernità” ispirata da una nuova creatività umanamente centrata
Alain Touraine

Alain Touraine - Epa/Claudio Reyes

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Difficile pensare a un accademico del suo livello con tanta vitalità, capacità e puntualità di analisi, evoluzione del pensiero e desiderio di stare fra i giovani e al centro del dibattito anche da ottuagenario e poi oltre i 90 anni. Alain Touraine è morto oggi nella sua casa di Parigi a 97 anni. Certamente può essere annoverato fra i più grandi sociologi e pensatori del Novecento, eppure, noi che l’abbiamo conosciuto e seguito nei primi venti anni del nuovo secolo, non possiamo non considerarne la straordinaria lucidità nella lettura di questo scorcio di millennio indicandone le problematicità e soprattutto una concreta strada per la loro soluzione.
Un esempio? In una intervista rilasciata a Francesco Dal Mas per questo giornale, nel settembre del 2001, sottolineava con inusitata puntualità il vero problema dell’Europa nella sostanziale incapacità di produrre cultura, ricerca e di conseguenza poli scientifici, tecnologici e di pensiero tali da competere con gli Stati Uniti e con le potenze emergenti asiatiche. Per lui il vero gap europeo era culturale. Il problema, sosteneva, non è semplicemente perché la formazione delle elite avviene oltre oceano, ma perché l’incapacità di creare poli universitari e centri di ricerca realmente competitivi impedisce all’Europa di crescere come riferimento culturale e scientifico per le giovani generazioni a livello mondiale. Questo genera un blocco anche per la crescita dell’Europa come fulcro politico internazionale, in particolare per quello che dovrebbe essere il suo bacino di competenza, cioè il Mediterraneo e quel Sudamerica, che per tradizione socio-culturale ha ancora importanti legami col Vecchio Continente e col quale (proponeva a quell’epoca) dovrebbe essere realizzata un’area di libero scambio.
Ciò che è accaduto in questi due decenni non può che confermare quell’analisi. Del resto Touraine non ha mai fatto mistero di ritenere la Ue affetta da miopie strategiche generate proprio dallo svanire della centralità culturale del Continente e da un sempre più asfittico dibattito intellettuale. Vedeva le istituzioni europee affette da «assenza di potere reale», subordinate non tanto dalle politiche dei singoli Stati, ma piuttosto dal potere finanziario, con un’istituzione come la Bce capace di fare scelte politiche senza consultare la politica. Così in tanti suoi libri degli anni Duemila insisteva nel lanciare “l’allarme democrazia” perché «non ci sono forze politiche, sociali, culturali che di fronte alla spinta del capitalismo finanziario abbiano la capacità di orientare diversamente la mondializzazione». Un problema non solo europeo, si potrebbe obiettare, ma per il sociologo francese l’impoverimento cultural-politico impedisce all’Europa quella necessaria visione strategica che la renderebbe capace di rivolgersi al mondo intero invece di limitarsi «a lavorare per l’integrazione o, al più, per l’ampliamento ai Paese dell’Est».
E qui come si può non valutare l’attualità di questo “sempre giovane” nato il 3 agosto 1925 a Hermanville-sur- mer, nella Francia che guarda alle coste britanniche. Alain Touraine era stato direttore di ricerca all’École des hautes études ec sciences sociales a Parigi e aveva insegnato in varie università anche di America Latina, Stati Uniti e Canada oltre che a Parigi-Nanterre. I suoi più di quaranta libri sono stati tradotti in tutte le lingue diventando spesso dei veri e propri riferimenti di scuola come Critica della modernità e Come liberarsi del liberismo pubblicati nella seconda metà degli anni Novanta. Le tesi economiche contenute in quest’ultimo furono un vero e proprio cavallo di battaglia in tutte le sue conferenze e lezioni in giro per il mondo. Riteneva infatti che il liberismo fosse la vera causa dei mali dell’Europa dagli anni Ottanta in poi, causa di un deleterio allontanamento dello Stato e del bene pubblico dall’economia. Un errore che per lui, prima ancora di essere sociale era morale. Perché, sosteneva in un colloquio col sottoscritto nel marzo 2013, in una pausa fra una conferenza e l’altra alla Sapienza, davanti a un italianissimo cappuccino con cornetto e una moltitudine di giovani in attesa, «se le nostre istituzioni non hanno la capacità di affrontare e risolvere i problemi economici e le urgenze dell’ecologia» è perché i legami fra la società e la politica «sono stati spezzati dalla globalizzazione della finanza». Un contesto in cui «il rischio vero è nel riproporsi di derive autoritarie» generate dalla progressiva disaffezione delle persone alle istituzioni nazionali ed europee. E se c’è una soluzione questa è da individuare «in un nuovo umanesimo che pone al centro l’individuo, con i suoi diritti e le sue aggregazioni rispettose le une delle altre» così che ogni singola persona non possa essere più trattata come una merce o una macchina.
Insomma, la questione morale prima della questione economica, per fare rinascere una società degna di tal nome, fondata su principi etici universali, in cui individuo e politica non solo diventino capaci di fronteggiare il predominio della finanza («fondata su logiche speculative contrarie a ogni diritto») ma tornino a essere il vero motore. E qui, ribadendo un altro dei suoi cavalli di battaglia, Touraine sottolineava l’impellente necessità di una rinascita del pensiero e della pratica democratica proprio in questo Occidente che crede di essere democratico, ma non professa più quella democrazia «che trasforma gli individui in cittadini liberi e responsabili ed è la condizione prima del rilancio economico e sociale». Quindi, aggiungeva con quel sorriso sereno che ne avvalorava le affermazioni, «se è vero che un individuo non si misura in dollari, bisogna mettere fine al dominio dell’economia sulla società» e questo è possibile solo con quel di più di democrazia che consente di discernere fra gli interessi di chi gestisce la finanza mondiale e quelli dei cittadini».
Alla luce di questa analisi moralmente stringente, nel suo ultimo libro, tradotto in Italiano nel 2019 col titolo In difesa della modernità, si permetteva un’ulteriore e più che saggia provocazione. Uscendo una volta per tutte dall’oziosa disputa ideologica fra modernità e postmodernità, sosteneva che per superare davvero l’epoca moderna e di conseguenza il Novecento, occorre capirli fino in fondo e non soltanto nei loro errori più evidenti, così che possano fungere da saldo fondamento per la nuova era. Lui la chiamava “ipermodernità” e sperava ardentemente che fosse ispirata da una nuova creatività umanamente centrata. Per far questo, però, Touraine invitava a superare una convinzione a sua parere responsabile dei peggiori errori della società occidentale fin dal Settecento, che cioè esistano leggi naturali dell’economia.
Secondo la sua visione, infatti, non esiste alcuna forma di determinismo economico, cioè regole sostenute da una incontrovertibile sequenza di causa-effetto che finisce per subordinare se non per escludere l’uomo. Pertanto Touraine invitava a guardare in maniera responsabile alla storia, perché la storia ci mostra «un mondo creato e continuamente trasformato e spesso persino distrutto da noi stessi». Ma anche, «la storia ci porta alla scoperta che la nostra unica natura consiste nel creare storia: noi, pur essendo creature naturali, siamo anche e soprattutto creatori di noi stessi, delle nostre trasformazioni e della nostra storia». Un nuovo umanesimo, appunto, capace di porre al centro l’uomo finalmente libero da condizionamenti e catalogazioni ideologiche; creativamente libero al punto di trarre insegnamento dal suo passato, cosciente del fatto che può, positivamente, essere «creatore e arbitro del suo destino».


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