lunedì 28 agosto 2017
Fece splendide traduzioni in dialetto di Brassens e fondò con gli amici Brivio e Patruno “I gufi”, che dal ’64 al ’69 furono per l’Italia come i Beatles per il mondo
Nanni Svampa, lo chansonnier di una Milano che non cè più
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«Dissacratore con attenzione agli emarginati». Così Nanni Svampa, scomparso a 79 anni nel fine settimana, definiva il proprio mito Georges Brassens: in parole che oggi paiono perfette per dire dello stesso Svampa, finto burbero che sui binari di una carriera multiforme ha saputo far correre parallele satira corrosiva e tenera bonomia, evitando volgarità e retorica grazie a cultura, umanità, equilibrio. Nato a Milano nel ’38, Svampa si diresse subito alle architravi della sua arte: fra gruppi antesignani di quello che si sarebbe chiamato cabaret, splendide traduzioni in dialetto del suddetto Brassens e l’idea di fondare con degli amici “I gufi”, che dal ’64 al ’69 furono per l’Italia come i Beatles per il mondo, stante l’enormità di generi artistici da loro inventati, rinnovati o sviluppati. Con Magni, Patruno e Brivio Svampa nei Gufi portò satira e cultura in tv, anticipò il Teatro Canzone di Gaber lavorando con Gigi Lunari, diede alle stampe 13 album. E al canzoniere gufico, sterminato quanto ancora attuale, contribuì in prima persona firmando numerosi gioielli: Era Natale di spassosa ironia, La circunvalasiun di surrealismo in milanese, Tucc’ i dì di riflessione sulla modernità, Non piangete di sferzante satira. Sino a dissacrare con Patruno Pellegrin che vien da Roma mettendogli a soggetto i socialisti, o a scrivere per una parziale reunion dei Gufi Grande Fiera d’aprile ’86, che oggi pare satira dell’Expo. E malgrado lui minimizzasse dicendo che il suo meglio erano le traduzioni da Brassens (nel 2004 anche in italiano) e Piazza fratelli Bandiera (capolavoro su cementificazione delle città e desertificazione delle anime), la sua grafia lasciava un segno per eleganza e acume. Del resto Svampa non va sminuito come “cantautore dialettale” o “cabarettista”.

Certo la sua Milanese, antologia della canzone lombarda in 12 lp che la Durium gli commissionò a esplicita prosecuzione della Napoletana di Roberto Murolo, rimane una pietra miliare: col coraggio di andare dall’800 a Jannacci e un canto misurato fra Kramer, Carpi e vere perle d’interpretazione (In libertà ti lascio, Porta romana). E certo in quella che definì “terza giovinezza” Svampa ha inciso cd pregevoli, con la sua bella voce verace e pensata insieme: La mia morosa cara, Concerto per Milano, Ma mi, un Cabaret concerto di storie comiche e strepitose canzoni-calembour come Rosa. Ma tutti i suoi album dicono di un artista ben oltre il locale, apparentabile al solo Jannacci per come seppe coniugare in Milano impegno e lievità, ricerca popolare e scrittura d’autore. E anche il cabaret per Svampa era roba seria: lo metteva in scena puntando su profondità e arguzia e ne diceva «Si fa a teatro, la tv abbassa il livello; non è pura provocazione, è cultura; è cercare un proprio nucleo di verità, non escamotage». Dunque non era tenero con l’oggi (pur avendovi lanciato Flavio Oreglio e il bravo Luca Maciacchini, con lui negli ultimi show), lo Svampa che scriveva libri e poesie divulgando la cultura lombarda anche in corsi per stranieri: «Vedo molti aspiranti comici, ma pochi tendono all’ironia e nessuno è capace di poesia».

Mentre Nanni Svampa, in una vita di ammirevole coerenza (ci disse «Ho perso un sacco di treni per la testardaggine di non scendere a compromessi») di poesia era capace: e tanto. Come quando cantava la sua Gh'è anmò un quaivun, c’è ancora qualcuno che non ha la macchina e dorme per terra: qualcuno che bisogna pur cantare, fra una gag e un Brassens. Chissà, forse Nanni Svampa volava troppo alto per essere popolarissimo, ma certo è stato figura troppo importante perché ora ci si possa permettere di dimenticarsene impunemente.

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