martedì 22 settembre 2020
Si autoproclamava con qualche civetteria la “ragazza del secolo scorso”, e in ciò aveva assolutamente ragione. Del secolo passato Rossana Rossanda aveva visto ogni cosa.
Rossana Rossanda in una foto d'archivio

Rossana Rossanda in una foto d'archivio - Fotogramma

COMMENTA E CONDIVIDI

Si autoproclamava con qualche civetteria la “ragazza del secolo scorso”, e in ciò aveva assolutamente ragione. Del secolo passato Rossana Rossanda aveva visto ogni cosa, dall’alto di un osservatorio privilegiato come lo erano i piani alti di Botteghe Oscure al tempo di Togliatti, che volle quella ragazza istriana (scomparsa domenica notte a Roma, era nata a Pola il 23 aprile 1924) nipote di un ammiraglio fucilato dai tedeschi e studentessa di filosofia a Milano con Antonio Banfi, quindi giovanissima staffetta partigiana, responsabile del settore cultura del partito.

Una delle poche scelte commendevoli del “Migliore”: con lei, con la sua Casa della Cultura, la sinistra aveva messo in soffitta la stanca guerra fra Croce e lo zdanovismo e si apriva non soltanto a Althusser o a Lukács, ma anche alla scienza, a Husserl, a Geymonat, a pensatori non canonizzati come Dal Prà, a un terzomondismo generoso – anche se, come nel caso della Cina di Mao Zedong, l’ideologia aveva ampiamente ottenebrato il suo senso critico. Ci mise poco a diventare una figura di riferimento presso l’intelligentsija comunista internazionale. Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Gabriel García Márquez, lo stesso Fidél Castro provavano per RoRó – la chiamavano così i colleghi del giornale che avrebbe fondato più avanti – un’irresistibile attrazione intellettuale.

Molti al suo posto si sarebbero impavesati di alterigia considerandosi – magari non del tutto a torto – la mosca cocchiera del comunismo. Ma a lei non accadde. Di una gelida severità sul lavoro, aveva sposato come le vestali di un tempo, la sacra fiamma di un’ideologia, che si era poi trasformata, complice lo stalinismo, in lugubre quanto efficientissimo bigottismo. Di cui la Rossanda stava diventando la coscienza critica, pur senza mai rinnegare del tutto le responsabilità e la pesante eredità che quell’ideologia che aveva accumulato milioni di vittime innocenti recava con sé.

Fino al giorno fatale del 1968 in cui – proprio lei, la dirigente ingraiana a cui erano già venuti i capelli precocemente grigi con l’invasione dell’Ungheria del ’56 – condannò i carri armati russi a Praga, sostenendo che poteva, anzi doveva esistere un comunismo non sovietico, non carcerario, senza gulag, senza quel dogmatismo di cui erano sature le stanze di Botteghe Oscure.

E che le costò l’espulsione dal partito, dopo che pochi mesi più tardi fondò insieme a dei compagni dissidenti il mensile il manifesto, al quale partecipò una ricca pattuglia dell’aristocrazia comunista, composta da Valentino Parlato, Luciana Castellina, Luigi Pintor, Massimo Caprara (che di Togliatti era stato il segretario), Lidia Menapace, Aldo Natoli, Lucio Magri.

Come dire, lo scisma. Perché tale venne vissuto nella laica parrocchia comunista quello strappo e i fuoriusciti, la Rossanda in testa, denigrati e combattuti con l’usuale metodo in uso nel partito. Ma servì a poco. Due anni dopo, il mensile si trasformò in quotidiano, una navicella sempre in bilico sull’orlo del fallimento e sempre strangolata dai conti, ma di una vitalità di pensiero che raramente le ormai paludate riviste del Partito Comunista erano in grado di eguagliare.

Era quell’aria di libertà (meglio sarebbe dire: di libero uso di un’elegante faziosità non scevra da certi teatrali episodi di cecità politica) che il Pci di Berlinguer non ebbe mai né avrebbe mai potuto avere. «Pas d’ennemis à gauche», era il motto del radicale francese René Renoult, e il Pci lo aveva fatto gelosamente proprio. E quella pattuglia di ribelli che si stagliava orgogliosa sull’arcipelago comunista con la potenza icastica di un casalingo Mount Rushmore e in cui spiccava il volto sereno e insieme inflessibile di Rossana Rossanda era lì a ricordarglielo, come una dolente inestirpabile spina nel fianco. Sinistro, ovviamente.

Da quei giorni il manifesto era diventato la sua vita. Scriveva, lavorava, litigava, si azzuffava, s’indignava, faceva scuola, istruiva e insieme intimidiva i giovani che man mano accorrevano a quella bottega di idee e di eresie, esortandoli a non dar mai nulla per scontato. Nemmeno il nascente fenomeno del terrorismo. Che stigmatizzò al culmine degli anni di piombo, mentre Aldo Moro era prigioniero delle Br, riconoscendo che il linguaggio delle Brigate Rosse apparteneva senza possibilità di dubbio all’“album di famiglia”, ovvero alla stessa sorgente ideologica del Pci e prima ancora dello stalinismo.

E fu uno scandalo dal quale il partito, che pure la lapidò sulle colonne de L’Unità, non riuscì mai a riprendersi. Dolcemente in balìa di gentili utopie e di meravigliose libere letture, Rossana Rossanda ha consumato gli ultimi anni della sua vita in un quieto pessimismo, sconfortata dalle chimere del nuovo millennio, dalla sua dilagante volgarità, dalla sua pervicace inclinazione a premiare i mediocri.

Nella sua autobiografia ha scritto: «Io sono del ’900 e lo difendo. È stato il primo secolo nel quale il popolo ha preso la parola dappertutto. E dove l’ha presa, l’ha presa sostenuto dalla sinistra». Una sinistra in cui la parola “compagno” non esiste più da tempo. Rossana Rossanda ci ha lasciati con l’intatta convinzione che il comunismo appartenesse al lato giusto della Storia. Non era vero e non lo è mai stato, ma lei per lo meno ci ha creduto. Difficile negarle tre qualità: il coraggio, l’eleganza del pensiero, e soprattutto una certa dirittura morale che oggigiorno sono divenute merce rarissima.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: