venerdì 13 gennaio 2023
Aveva 87 anni. Superando gli schemi della storia dell'arte ha contribuito in modo essenziale alla nascita della "cultura visuale". Fondamentale i suoi studi su arte e religione
Hans Belting (1935-2023)

Hans Belting (1935-2023) - Giorgio Boato

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Ci sono poche figure nell’ultimo mezzo secolo nel campo dell’arte e dell’immagine paragonabili per importanza ad Hans Belting, scomparso martedì scorso a Berlino – ma la morte è stata comunicata solo oggi – all’età di 87 anni. Lo rivela anche la difficoltà di definirlo: la qualifica di storico dell’arte, sebbene si sia sempre considerato tale, gli sta decisamente stretta. I suoi studi segnano in realtà un vero e proprio spartiacque nella disciplina. Rispetto a gran parte dei colleghi non di rado dedicati ai singoli fenomeni (spesso minutissimi) e alle beghe attributive ma poco abituati disegnare scenari e ridiscutere scansioni fissate fin dall’Ottocento su sequenze tra l’idealismo e il darwiniano, Belting ha saputo riesaminare i fondamenti epistemici della storia dell’arte. Uscendo dalle consunte categorizzazioni cronologiche, ha ricostruito la trasversalità degli archi strutturali su cui si è organizzato l’immaginario della cultura occidentale, individuandone intersezioni e punti di rottura. Così facendo Belting ha di fatto contribuito a gettare le basi di una nuova disciplina, una storia e una teoria dell’immagine che è settore indispensabile della galassia complessa e vitale dei visual studies. In sintesi, una transizione da una storia delle forme e dei contenuti a una storia del funzionamento e dei significati delle immagini in quanto dispositivi.

Dopo essere stato ordinario di storia dell’arte nell’Università di Monaco, nel 1992 aveva assunto la docenza di storia dell’arte e teoria dei media presso la Hochschule für Gestaltung dell’Università di Karlsruhe, dove ha fondato il corso interdisciplinare “Immagine-corpo-medium: una prospettiva antropologica”. Non a caso Belting riconosceva i suoi punti di riferimento in «in campi differenti dalla storia dell’arte – spiegava in un’intervista ad “Avvenire” nel 2015 in occasione del Premio Balzan –, penso ad antropologi come Marc Augé e Jean Pierre Vernant a Parigi o filosofi come Arthur C. Danto a New York. Con loro ho sviluppato un dialogo fin dagli anni Ottanta. Ma non sono maestri quanto piuttosto partner nella discussione».

Di questo scarto epistemologico era termine esplicito l’incipit della prefazione del monumentale Il culto delle immagini (pubblicato la prima volta nel 1990 e che Carocci, editore italiano di riferimento per il suo lavoro, ha riportato in libreria nelle scorse settimane in una edizione rivista e aumentata): «Una storia dell’immagine è qualcosa di diverso da una storia dell’arte». Belting in quel libro esplorava il tema del volto, ossia del ritratto (l’imago) divenuto nei primi secoli del cristianesimo attraverso l’icona «oggetto privilegiato della pratica religiosa» e quindi al di fuori della «narrazione per immagini o historia, che poneva la storia sacra innanzi agli occhi dell’osservatore». Una dimensione che si consuma definitivamente al principio della Modernità quando con l’avvento dell’arte l’antica immagine entra in crisi: «Mentre le immagini di vecchio tipo vengono distrutte dagli assalti iconoclastici dei riformatori, nello stesso periodo sorgono immagini di un nuovo tipo, destinate alle raccolte d’arte». È la fine dell’era dell’immagine e l’inizio dell’era dell’arte, «che dura ancora oggi».

Il tema è oggetto dell’ultimo capitolo del volume “Religione e arte” e in particolare dello straordinario paragrafo dedicato alla Madonna Sistina di Raffaello dalla perdita di significato dell’originale dell’immagine-icona «che con la sua presenza reale esercitava un potere sui fedeli» al cui posto «ֿsubentra l’“originale” in senso artistico, che riproduce in modo autentico l’idea dell’artista».

Va da sé che Il culto delle immagini dovrebbe essere il quadro di riferimento di ogni discorso sull’ermeneutica dell’immagine cristiana nella storia e in particolare nella contemporaneità, eppure in larga parte non è così. Comunemente si usa ancora invece l’espressione “arte sacra”, un guazzabuglio semantico sotto tutti i punti di vista, e anche quando nell’approccio si riesce a uscire da un sentimentalismo di fondo ci si affida alle categorizzazioni stilistiche ed estetiche della storia dell’arte. Non pare inopportuno in questa sede osservare come in Italia forse solo Giuliano Zanchi ha saputo affrontare la questione in un’ottica beltinghiana, in lavori come Un Amore inquieto. Potere delle immagini e storia cristiana (EDB) e Icone dell’esilio. Immagini vive nell’epoca dell’Arte e della Ragione (Vita e Pensiero).

Il tema del volto e dell’immagine sacra ritorna in volumi come La vera immagine di Cristo (Torino, Bollati Boringhieri, 2007) e Facce. Una storia del volto (Carocci, 2014). In quest’ultimo un capitolo è dedicato alla “Nascita della maschera del culto” e in particolare al rapporto con i defunti. Il legame sorgivo tra immagine e morte è un altro dei temi fondamentali esplorati da Belting: «Gli esseri umani – spiegava ancora nel 2015 – dovettero avere una ragione per iniziare a produrre immagini, e questa fu la morte di un membro della società». Un legame allentatosi per quanto riguarda la sfera dell’arte ma che resiste ad esempio «nelle immagini poste sopra le tombe dei defunti nei cimiteri. Oppure come in Argentina, con le madri di Plaza de Mayo che portano in marcia le fotografie dei desaparecidos».

Il tema è primario nell’altro capolavoro di Belting, Antropologia delle immagini (Carocci, 2011), nel quale «per comprendere le azioni simboliche che noi eseguiamo in relazione alle immagini» l’autore si pone «degli interrogativi sulle loro origini». Una di queste è appunto la necessità di recuperare una «presenza» dissolta, costruendo «contenitori dell’incarnazione» che servano «ai morti per sostituire i corpi perduti». Più in generale, osservava Belting, «gli uomini isolano entro la loro attività visiva, quella che per loro rappresenta una legge esistenziale, ogni unità simbolica che noi chiamiamo “immagine”. La doppia significazione dell’immagine, interiore ed esteriore, non è separabile dal concetto di immagine, poiché, attraverso questa dualità, appare una fondazione strutturale antropologica. Un’“immagine” è più di un prodotto della percezione. Nasce come il risultato di una simbolizzazione personale o collettiva».

Antropologia delle immagini è un vertiginoso excursus che dalla preistoria arriva fino alla fotografia e alle arti contemporanee. Nonostante la sua formazione specialistica fosse legata all’arte medievale e all’arte bizantina (competenze profonde che gli consentiranno di sviluppare il discorso futuro), Belting sviluppò presto uno sguardo complessivo che confluisce in Das Ende der Kunstgeschichte?, del 1983, tradotto in Italia però con un titolo assertivo: La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte (Einaudi 1990), a cui sarebbe seguito nel 1995 Das Ende der Kunstgeschichte, senza punto di domanda, inedito in Italia. Il primo poneva un dubbio sulla validità del modello della storia dell’arte così come era stato formulato, incapace di rispondere ai cambiamenti della contemporaneità. Il secondo vedeva Belting ormai all’interno del dibattito sulle pratiche contemporanee e conscio che stavano nascendo nuove domande sulla storia dei media e l’iconologia.

Il processo di ripensamento integrale della storia dell’arte sarebbe proseguito a cadenza decennale in altri due volumi usciti direttamente in inglese: in Art History after Modernism (2003), in cui sostiene che la storia dell’arte non è finita ma si trova in un tempo nuovo ed è invitata a un nuovo inizio, e The Global Contemporary and the Rise of the New Art Worlds (2013) considerato subito uno testo fondamentale sulla condizione attuale dell’arte. C’è da augurarsi che la scomparsa di Belting possa almeno servire a vedere questa “tetralogia” pubblicata anche in Italia.

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