martedì 27 dicembre 2011
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«Nei miei novant’anni di vita, quasi settanta li ho passati a scrivere le cronache del mio Paese. Cominciando con i giornali della guerra partigiana e della caduta del regime fascista. Posso dire che conosco il Paese in cui sono nato e vissuto? Sì e no. Le sue virtù continuano a stupirmi, come i suoi difetti». È Giorgio Bocca, uno dei più noti giornalisti italiani – morto il giorno di Natale e i cui funerali si svolgono questa mattina a Milano in forma privata – a raccontare la sua lunga carriera professionale che l’ha portato dalla sua Cuneo, dove era nato nel 1920, a cercare di capire ciò che succedeva intorno a noi e anche fuori del nostro piccolo mondo. E lo ha fatto con grande efficacia e maestria, ricorrendo a tutti i registri possibili del giornalismo: dall’inchiesta alla divulgazione storica, dai reportages sulle grandi tragedie (come quella del Vajont) alla cronaca nera, dalle interviste ai «grandi» della politica e dell’economia ai corsivi graffianti e anche irati, ai giudizi talvolta pesanti ed eccessivi con conseguenti dure polemiche («Beppe Fenoglio è un falsario della lotta di Liberazione. È come Pansa. La sua Resistenza, un teatro di assassini, di cialtroni e di poveracci») con uno stile asciutto, senza tanti fronzoli, badando all’essenziale. «Ho sempre concepito il giornalismo come letteratura. Quindi se per il racconto conveniva fregarsene dei particolari,  me ne fregavo», ha spiegato in un’intervista di due mesi fa definendosi un giornalista «incapace di commuovere». Forse per via del cinismo necessario, a suo giudizio, nel nostro mestiere: «La notizia viene prima di tutto il resto. Una delle mie cose tipiche era rubare le fotografie dell’assassinato». Carattere scontroso, spesso anche con i colleghi, bastian contrario quasi per principio con un’alta punta di pessimismo, Bocca sarebbe rimasto un provinciale nella sua città («volevo fare l’avvocato») con una adesione abbastanza convinta al fascismo («A Cuneo, il regime non fu una cosa feroce»), se non fosse stata la guerra – all’epoca frequentava il corso di allievo ufficiale alpino ad Aosta –, come avvenne per tanti altri giovani della sua generazione, a fargli scoprire che c’erano altre parole d’ordine oltre agli slogan dei regime: democrazia e libertà. Ecco dunque la scelta della Resistenza nelle file di «Giustizia e libertà» – con un’esaltazione quasi acritica di questo movimento in tutta la sua vita – e quindi l’inizio di un intenso cammino giornalistico a cercare di capire. Un cammino nella cronaca e nella storia del nostro Paese, nelle sue profonde trasformazioni (da società agricola a società industriale, e poi post-industriale, dal «miracolo economico» degli anni ’50 alla crisi dei nostri giorni) nei suoi cambiamenti istituzionali e politici, dalla monarchia alla Repubblica, dalla degenerazione dei partiti all’era Berlusconi; periodi che Bocca racconta criticamente in saggi (sull’Italia partigiana, sulla guerra fascista, su Palmiro Togliatti, sulla Repubblica sociale), in inchieste approfondite raccolte in diversi volumi (tra gli ultimi Fratelli Coltelli, 1943-2010. L’Italia che ho conosciuto, edito da Feltrinelli) che reggono all’usura del tempo e in numerosi articoli su Repubblica, dove era approdato dopo la sua bella stagione al Giorno. Lo fa con acute e significative considerazioni: «Negli anni ’50, invece della rivoluzione dei rossi, arriva quella dei majèr di Carpi… La Ferrari dodici cilindri in piazza e l’amante a Correggio, il popolo lavoratore che dice no al "fazismo" e i milioni e magari i miliardi di tutti ’sti fenomeni»... Bocca ha un duro giudizio sulle rivolte del ’68: «A un provinciale uscito dalla guerra partigiana che era stata fatta con una selezione dei migliori, la disciplina dei militanti e queste chiacchiere in libertà, questo ondeggiare delle masse, questo attivismo frenetico parevano fini a se stessi». Negli anni di piombo scrive: «Esiste il fiume carsico della violenza, che emerge questa volta contro il potere statale della borghesia d’ordine». Sulla scena politica compare la Lega e Bocca annuncia pubblicamente di votarla per arrivare presto a una nuova legge elettorale, a una nuova Costituzione, a un ricambio della classe politica. Ma ben presto si fanno avanti motivi per ripensare a questa scelta, più umorale che politica. In linea con il personaggio. Del tutto assente – in questo continuo cercare di capire – ogni riferimento religioso: «Per il mio spiccato senso pratico, mi ha sempre infastidito questo Dio nascosto che non si fa vedere. Ma fatti vedere. Fatti riconoscere! Mi verrebbe da dirgli». Eppure poco più di un anno fa dichiarava: «Capisco il bisogno di cercarlo. Ma non capisco tutta la fatica che ci vuole. Sono amico di alcuni teologi, ma non mi hanno convinto della necessità di cercare questo Dio nascosto. Ci sarà anche, ma se devo fare una fatica così grande per trovarlo ne faccio a meno». Sarà proprio così per il grande giornalista che ci ha lasciato?
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