mercoledì 1 dicembre 2010
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In Lo giuro, la poesia che dà il titolo all’antologia curata da Serena Vitale (Interlinea 2008), promette di distruggere, come se fosse un orco malvagio, la città che aveva portato via la sua amata Marina. Il male che inghiotte l’arte e la libertà, nel tempo dell’oppressione comunista, assume così l’aspetto della città di Elàbuga, in cui si era tolta la vita un’altra grande poetessa russa, Marina Cvetaeva. Bella Achmadulina si è spenta lunedì scorso, portata via da un attacco di cuore. Nella sua non lunghissima vita aveva forse un po’ riscattato l’infelicità di Cvetaeva, e di Anna Achmatova, tanto perseguitate dal regime, diventando, dopo la fine del comunismo, l’icona femminile più famosa e amata della letteratura russa. Marc Slonim l’aveva definita, nella sua Storia della letteratura sovietica del 1969, la probabile erede appunto di Anna Achmatova. E molti altri protagonisti della grande letteratura del suo paese sono entrati nel suo spazio poetico: Puskin, Lermontov, Pasternak, simboli dello splendore dell’intelligenza umana, contrastato, a volte fino alla morte, dalla violenza della stupidità, politica e sociale. E anticipando il romanzo di Ian McEwan Espiazione, Achmadulina aveva voluto riparare all’ingiustizia della morte di Puskin in duello, per mano di quello che per lei è il rappresentante dell’«insulsa supremazia del male»: nella poesia Duello, immagina che sia stato il nemico dello scrittore, «l’ignorante», a soccombere. È una costante della sua poesia, pur sempre permeata di dolcezza, questa combattività affidata alle parole. Così come la malinconia, i ricordi affettuosi, e l’attenzione verso di sé e la propria instabilità nervosa, fin dalla raccolta Il brivido del 1968. Ne sono complici gli oggetti, specialmente le case, che sembrano animarsi e vivere silenziosamente, forse più consapevoli degli esseri umani. Nell’insieme, una poesia composta di Tenerezza (il titolo della scelta di poesie uscita da Guanda nel 1971) ma che nasconde grande lucidità e forza ribelle.Del resto, nella sua stessa vita Bella Achmadulina aveva dovuto imparare a difendersi dalla violenza: nata a Mosca nel 1937 da una madre di lontane origini italiane, era stata costretta a vivere sotto la minaccia della censura (era stata espulsa dall’Istituto letterario Gorkij per scarso profitto in marxismo-leninismo) e solo col "Disgelo" di Kruscev aveva incominciato a esprimersi liberamente: è del 1962 la prima raccolta, La corda. Ma con l’ascesa di Breznev la sua voce era stata di nuovo soffocata, relegata a fogli clandestini, diventando protagonista di una dissidenza poetica che è stata anche di Evtusenko, il suo primo marito, e di Brodskij. Una stagione, testimoniata in Italia nel volume La primavera di Mosca (Jaca Book), che l’ha vista combattere non solo con i propri versi in difesa del dissidente Sacharov, contro i soprusi del regime. In seguito, dopo la fine del comunismo, la sua popolarità, non più contrastata da divieti e difficoltà a pubblicare, si è ancora accresciuta, per merito anche del suo fascino personale. La sua figura, nota Serena Vitale nell’Introduzione dell’antologia Lo giuro, era stata «quanto mai rappresentativa del fenomeno tipicamente sovietico del divismo letterario», perché in Unione Sovietica la letteratura era il più largo bene di consumo. Ai giorni nostri, nonostante questo fenomeno tenda a svanire, il valore poetico di Achmadulina ha ottenuto i massimi riconoscimenti, all’estero dopo la sua consacrazione in patria, dove la sua opera omnia è stata pubblicata nel 1997: più volte candidata al Nobel, tradotta e vincitrice di importanti premi in molti paesi, è stata compianta dal presidente Medvedev alla notizia della sua morte. In Italia, nel 2008 ha vinto il Premio Lerici-Pea, con una giuria di poeti e critici di valore. Proprio la testimonianza di uno dei giurati che l’aveva conosciuta personalmente, Sebastiano Grasso, ci permette di ricordarla oggi come una «una meravigliosa ragazzina dal forte carattere di donna».
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