giovedì 9 febbraio 2023
Un saggio di Laura Loddo nota come la situazione degli esuli nell’Ellade sia ricca di analogie con quella dell’Europa attuale. Quasi sempre venivano accolti con benevolenza, ma non sempre
Federico Barocci, "Fuga di Enea da Troia", 1598. Roma, Galleria Borghese

Federico Barocci, "Fuga di Enea da Troia", 1598. Roma, Galleria Borghese - WikiCommons

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Le riflessioni amare, malinconiche e piene di vergogna di Hannah Arendt e Gunther Anders sulla loro condizione di profughi, costretti a sfuggire dalla persecuzione del nazismo durante gli anni Trenta del secolo scorso e a riparare in America, sono emerse di recente anche in Italia grazie alla pubblicazione del volume L’emigrante di Anders (Donzelli). Nel 1929 Hannah aveva sposato Gunther, che quattro anni dopo l’avrebbe aiutata a riparare a Parigi – nonostante i due si fossero lasciati e la Arendt si fosse risposata e fosse stata internata nella Francia del Sud come straniera nemica –, riuscendo nel 1941 a farla emigrare negli Stati Uniti, dove lui si trovava già dal 1939. Marito di Hannah e cugino di Walter Benjamin, Anders era stato costretto a fuggire dalla Germania nel 1933 per le sue origini ebraiche e descrisse la sua vicenda in un articolo apparso sulla rivista Merkur nel 1962, ora pubblicato nel libro. Ma già nel 1933 aveva affrontato il tema dell’emigrazione in una poesia che così esordiva: “Dietro l’atrio di questa stazione / più nessuno sa chi sei”. Primo abbozzo di una meditazione che intendeva rendere giustizia alla condizione morale ed emotiva dell’emigrante, la cui presenza non può essere considerata “semplice eccedenza”. Con Hannah, dalla quale si era separato nel 1937, mantenne un dialogo fruttuoso, come emerge dalla loro corrispondenza, e apprezzò soprattutto il saggio Noi profughi (1943), in cui ci si ritrovava pienamente. Scampata al pericolo, da parte sua la Arendt fino al 1951, anno in cui ricevette la cittadinanza americana, visse come apolide, dato che era stata privata di quella tedesca nel 1937 come conseguenza delle leggi di Norimberga. Una situazione che procurò in lei angoscia e amarezza, tanto che in una lettera allo stesso Anders nel 1959 esclamava: “Ho il passaporto (il libro più bello che conosca, un passaporto)”. Parole che denotano il suo sollievo dopo anni in cui lei, come i rifugiati ebrei espatriati dalla Germania e scampati all’orrore del nazismo, aveva vissuto un’esperienza di totale impotenza. Le figure dei due grandi intellettuali tedeschi e la loro condizione di stranieri, in una nuova patria che pure li aveva accolti e in cui si troveranno pienamente inseriti dopo anni di gravi difficoltà, tornano alla mente leggendo il saggio di Laura Loddo I rifugiati politici nella Grecia antica (il Mulino, pagine 144, euro 14,00). Uno studio in cui l’analisi della situazione degli esuli nell’Ellade è ricca di analogie con quella dell’Italia e dell’Europa attuale. L’autrice, che insegna Storia greca all’università di Cagliari, descrive le varie forme dell’accoglienza o del rifiuto nelle città greche, con Atene che emerge per la sua ospitalità, e racconta quali furono le figure più emblematiche, fra cui Temistocle e Alcibiade. « Esuli e rifugiati – si legge proprio all’inizio del libro – si incontrano di frequente nelle fonti greche. Le loro peregrinazioni in fuga da situazioni di pericolo, la ricerca disperata di un rifugio sicuro, il rimpianto per la patria perduta si accompagnano nei resoconti antichi con episodi che li videro agire come protagonisti di rilievo della vita politica internazionale». E più avanti si precisa che «mentre l’esule è colui che abbandona la sua patria e un apolide è colui che non possiede la cittadinanza di nessun paese, il rifugiato è colui che ha trovato un porto sicuro, sperimentando l’accoglienza in un altro paese». Anche se, come noto, il concetto di rifugiato è recente e ha trovato una formalizzazione giuridica attraverso la Convenzione di Ginevra del 1951. Fra gli esuli più famosi della letteratura figurano Ulisse ed Oreste, con Omero che nell’Odissea può scrivere che “per i mortali nulla è peggiore dell’errare”, mentre Eschilo nelle Eumenidi descrive la sorte del personaggio mitologico che ha ucciso la madre ed è costretto alla fuga. Poi ci sono i resoconti degli storici, da Erodoto a Polibio, con Tucidide che dà voce ad Alcibiade esule a Sparta, mentre i lirici greci hanno mostrato scarso interesse verso gli esuli. I quali quasi sempre venivano accolti con benevolenza, ma in alcuni casi erano considerati come dei mendicanti o dei vagabondi, e perciò maltrattati se non addirittura allontanati. Il caso del vincitore della battaglia di Salamina, Temistocle, è emblematico: dopo la grande vittoria, forse per invidia degli avversari politici, fu colpito da ostracismo e dovette lasciare Atene, chiedendo asilo ad Argo per poi spostarsi in Epiro, alla corte di Admeto, che gli diede protezione e lo aiutò a fuggire dopo la condanna a morte in contumacia, nuovamente costretto a girovagare e secondo la tradizione a trovare rifugio addirittura in Persia. Poi c’è la vicenda di Diagora di Melo, considerato fra l’altro il primo ateo della storia e bandito da Atene, così come Alcibiade, dopo lo scandalo delle Erme decapitate: i busti raffiguranti il dio Hermes posti ai crocicchi delle strade furono trovati un bel mattino senza testa e i due per vari motivi furono accusati di essere coinvolti. Anche Diagora fuggì e trovò riparo a Pellene in Acaia, ma il suo nome fu disonorato, inciso sulla stele dell’infamia: della vicenda si parla nella commedia Gli uccelli di Aristofane. Immigrati, esuli e profughi erano perlopiù ritenuti una minaccia per la stabilità della comunità in cui si erano rifugiati, esattamente come oggi. Fra le città più aperte come detto vi fu Atene: Pericle stesso sostenne che le altre città greche erano solite espellere gli stranieri, a differenza di quello che era il cuore pulsante dell’antica civiltà ellenica. E se Aristotele dovette ammettere i rischi che caratterizzavano la condizione di chi si trovava in esilio, avvalendosi della metafora del pedone che si trova isolato in mezzo alla scacchiera, gli stoici ed i cinici puntarono sul cosmopolitismo e sulla necessità di vivere senza patria, da cittadini del mondo.

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