venerdì 30 dicembre 2016
Accademia e dottrina da strumenti di crescita si trasformano in paralisi: eppure il senso dell’uomo non è fissità, bensì cammino
Contro la legge, gloria del mediocre
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La idolatria della accademia e della dottrina è il rifugio dei mediocri. Baluardo artificioso costruito su intuizioni importanti, private della loro caratteristica principale: la naturale predisposizione ad aprirsi al costante germogliare di nuove conseguenze. A un certo punto ci si dimentica che le intuizioni hanno un senso solo se a servizio della realizzazione dell’uomo, accompagnandolo in quel costante cambiamento che è il destino dell’esistenza. La tentazione di fare dell’intuizione una regola fissa e immutabile prende il sopravvento. Alcuni dettagli, alcuni momenti di una evoluzione, diventano idolo. E la loro venerazione un suicidio spirituale e artistico. Idolo molto più insidioso del vitello d’oro, ammantato di verità rivelate. Ma le rivelazioni sono tali perché assumono la concretezza dell’uomo, fatta di cammino e continua rigenerazione. Farne un idolo statico, pervicacemente legato alla propria personale attitudine al controllo, è un tradimento della stessa ragione d’essere della rivelazione, che è espansione. Invece alcuni vogliono farne non una tenda, come l’ingenuo e sincero Pietro del Tabor, ma un bunker, fatto di virgole e dettagli, della grettezza del proprio personalismo, di una mera elencazione normativa, attraverso cui scrutare e giudicare. Mediocrità nella superbia.

Accademia e dottrina, nel loro senso alto, non sono affatto un complesso ordinato di principi e neppure un insieme di dettami. Dovrebbero essere il trionfo di empatia e affetto per l’uomo, strumenti di consolazione e non di costrizione. In parte sono anche specchio. E se è la mediocrità a specchiarsi, diventano esercizio farisaico. I farisei in fondo erano i grandi accademici della dottrina del tempo. Di una dottrina riflesso non dell’origine ma della loro piccolezza. Accademia e dottrina rischiano sempre questo percorso distruttivo. Il mediocre trova conforto e modo di affermarsi solo in queste rigide quanto illusorie gabbie artificiali. Il motivo profondo è che il mediocre pone come regola del proprio vivere thanatos e non eros. Tutto ciò che esiste è punitivo e limitativo. L’ansia del precetto supera la vicinanza all’uomo. Invece tutto ciò che esiste è nella logica dell’amore. Il motore primo di ciò che vive è amore, il motore primo dell’arte è amore, il motore primo della rivelazione, per chi ci crede, è amore.

Per il mediocre questo è inconcepibile, perché di tale amore è privo. Serve un limitatore: e quale più profondo e perfetto di una puntigliosa lettura e applicazione della norma? Con queste regole il mediocre aspira a colmare l’anticipo che l’accelerazione del talento gli dispensa impietosamente. La mediocrità può essere anche spirituale, ed è una delle più devastanti. È migliore l’errore generoso e genuino che il rigore acefalo di un moralismo spietato e ideologico, scheletro formale e anchilosato di un corpo dissoltosi nell’acidità di una frustrazione cui neanche l’esercizio del potere può essere di conforto. All’origine della mediocrità è l’incapacità di accettare la continua ridiscussione di se stessi, cui la vita obbliga continuamente, e che il mediocre tenta di ignorare. Moralismo e perbenismo sono le stampelle che gli permettono di prolungare l’illusione della stasi. Accademia e dottrina sembrano le scatole perfette e incontestabili con cui giustificare la glorificazione della paralisi. La sirena più infida per gli accademici della dottrina fa coincidere la mistica con la rigidità: la convinzione che il mistero si distilli nel progressivo distacco dall’uomo. Il mistero per costoro è l’annullamento dell’incontro. Il mistero come distanza. Ci si avvicina alla sintassi e ci si allontana dalla carità.

Ma se il mistero sceglie di entrare nella polvere e nel sudore dell’uomo si capisce bene come questo approccio sia l’esatto contrario della sua essenza. Da questo deriva il destino dell’artista o del profeta autentico. Lotta, pregiudizio, rifiuto. Temporaneo, poiché alla vita, all’arte, non si può fare da ostacolo. Si può tentare di dare qualche inciampo, esaltando ancor più l’esuberanza della vitalità destinata al sopravvento. Chi porta novità ed energia è sempre, per destino e definizione, destabilizzante. Sempre inaspettato, sempre inadeguato alla cristallizzazione delle regole perché è in grado di espanderle e di compierle. Il grigiore interiore di chi ostenta reprimende e cavilli, spesso associati all’intrigo o allo sfoggio di potere, non può che capitolare di fronte all’esondare della vitalità di quella luce che alcuni sono destinati a portare, perché a differenza degli idoli, è viva, vibrante, gioiosa. In una parola, presente.

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