venerdì 16 giugno 2017
Il Circolo Nautico di Castellammare di Stabia e il futuro ancora nel segno dei “fratelloni”: «Questo luogo è una palestra di vita dove insegniamo ai giovani la libertà»
I fratelli Carmine e Giuseppe Abbagnale con Giuseppe Di Capua, oro a Seul nel 1988

I fratelli Carmine e Giuseppe Abbagnale con Giuseppe Di Capua, oro a Seul nel 1988

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Il sole al tramonto picchia ancora forte sul Circolo Nautico di Castellammare di Stabia (Napoli). All’appuntamento si presenta un signore 55enne che insieme con i suoi fratelli ha scritto la storia dello sport, non solo del canottaggio. Carmine Abbagnale ha in una mano il borsone dell’allenamento: «Appena posso vengo qui tutti i giorni. Questa è la mia seconda casa». Nell’altra stringe due coppe: «Sono gli ultimi titoli junior vinti dai nostri ragazzi», spiega soddisfatto da direttore sportivo di una società gloriosa. Qui sul molo, alle spalle della chiassosa movida, il silenzio è interrotto solo varcando la palestra dei canottieri. È tra queste mura e questi attrezzi che sono cresciuti i “giganti del remo” della pluridecorata dinastia Abbagnale: insieme con Giuseppe, classe 1959, oggi presidente della Federazione italiana, Carmine ha formato uno dei binomi più vincenti di sempre con due ori (1984 e 1988) e un argento olimpico (1992) e sette titoli mondiali tra il 1981 e il 1993. L’ultimo dei fratelli Agostino, classe 1966, ne ha vinti addirittura tre, di ori olimpici, oltre a due titoli mondiali. «È stato nostro zio, Giuseppe La Mura, a “contagiarci” tutti. Lui, che era allenatore al Circolo Stabia, sperimentò con noi una preparazione tutta sua. Avevo quindici anni e, essendo noi di Pompei, non sapevo ancora nuotare. Si iniziava alle cinque e fino alle otto, quando si andava a scuola, ci allenavamo in acqua, mare permettendo; il pomeriggio in palestra con i pesi». Senza respiro per tutto l’anno: «Le uniche soste, Natale e Pasqua. Per guadagnare tempo avevamo anche allestito una palestra a casa nostra in garage tra le conserve della mamma. E all’alba per riscaldarci facevamo di corsa il tragitto fino al Circolo, circa sette chilometri ». Un impegno che incontrò qualche titubanza a casa: «Mio padre pensava che le nostre braccia sarebbero state di maggior aiuto nei campi, essendo una famiglia di coltivatori. Ma poi si arrese…».

L’entusiasmo fu sempre più grande di tante rinunce: «Non abbiamo fatto la vita che fanno i ragazzi di quell’età, ma se vuoi arrivare a certi risultati è normale. Anche se per noi più che sacrifici erano divertimenti quotidiani. Non ci pesava alzarci presto, lo facevamo già prima per aiutare i miei genitori ». Carmine continua a riaprire il libro dei ricordi in una sala che gronda di loro trofei in vetrina: «Seul è la vittoria più bella perché riuscimmo a confermare il titolo olimpico e perché con l’oro di Agostino tre fratelli sul gradino più alto del podio è tuttora qualcosa di inaudito». Successi amplificati in tv dalla voce arrembante di Giampiero Galeazzi: «Siamo legati a lui. Le sue telecronache accese erano spontanee perché avendo lui praticato canottaggio a buoni livelli viveva le nostre gare come se fosse ai remi con noi». Ma la carriera degli Abbagnale non fu priva di delusioni: «Barcellona ’92 brucia ancora, perdemmo l’oro negli ultimi colpi. Però forse avevamo abituato troppo bene i nostri tifosi per cui anche un secondo o terzo posto diventava una tragedia. Un paio di volte ci diedero per finiti ma dal 1981 al 1993 non siamo mai scesi dal podio». Eppure sulle pareti del Circolo si fa fatica a trovare una foto dei “fratelloni”: «Noi non ci teniamo, guardiamo ai giovani. Il nostro grande dispiacere è solo uno: questa struttura ormai cade a pezzi. Le istituzioni si sono dimenticate di noi e continuano a prenderci in giro. Servono fondi e nessuno ci aiuta. Questo luogo storico, che per molti ragazzi è stata una palestra di vita, non merita questo degrado». Lo sguardo amaro spazia sulle mura scrostate dal tempo che sfigurano davanti alla bellezza del Golfo sovrastato dal Vesuvio. Il tempio in cui è nata la leggenda degli Abbagnale non può essere inghiottito dalle stesse acque da cui, secondo il mito, venne Ercole per fondare la Stabiae preromana. Qui si pratica il canottaggio moderno sin dal 1870. Ma Carmine taglia corto: «Però non è mai il luogo, sono sempre gli uomini a fare la differenza». E nonostante tutto la società stabiese continua a sfornare talenti: «Ne abbiamo tanti. Giovanni Abagnale, bronzo olimpico e campione europeo, è uno di questi. Anche dopo di noi ci sono state medaglie olimpiche, difficile è resistere ad alti livelli per quasi vent’anni. I ragazzi oggi vincono qualcosa e poi si perdono o smettono».

Uno scoglio grande è anche la paura del futuro: «Di canottaggio purtroppo non si può vivere. Se non fai parte di un corpo militare è difficile fare il professionista. A fine carriera rischi di ritrovarti con un pugno di mosche in mano. Noi siamo stati incoscienti e abbiamo continuato per pura passione. Ma siamo stati sul punto di smettere perché dopo l’Isef avremmo dovuto fare supplenze in tutt’Italia per entrare nella scuola, quando ancora eravamo all’apice della carriera. Poi è anche vero che oggi i ragazzi hanno più distrazioni e con genitori sempre più accondiscendenti sono meno propensi al sacrificio». Ma non si sale sul tetto del mondo senza relazioni autentiche: «Con mio fratello c’è stato grande affiatamento, per quanto abbiamo due caratteri diversi: più chiuso io, più irascibile lui. E anche con Peppiniello Di Capua, il nostro timoniere – che a volte ci faceva arrabbiare perché doveva pesare non più di 50 kg –, siamo tuttora grandi amici». Decisiva la famiglia d’origine («a cui dobbiamo tutto»), ma anche una figura insospettabile: «Un sacerdote, don Angelo Villa, nostro tifoso e confidente spirituale che ha celebrato i nostri matrimoni». La passione è rimasta nel Dna della famiglia: «Anche le mie due figlie hanno fatto canottaggio, una ha vinto tutto e poi ha detto basta. È sempre stata una scelta loro. Per me è importante che facciano sport. Ai ragazzi dico che in ogni cosa ci vuole determinazione e spirito di sacrificio. Poi, come dice la targa appesa nel Circolo, “Il successo è una lunga pazienza”». E gli occhi si posano sull’imbarcazione di mille battaglie e vittorie: «Solcando le acque, scopri il piacere di un dono grande dato all’uomo: la libertà. Per questo la passione per il canottaggio non tramonterà mai».

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