sabato 8 agosto 2015
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«Giove, vedendo il mondo allagato e sommerso, e il genere umano estinto nell’immensa palude salmastra, e solo quei due giovani superstiti, di tante migliaia di vite, si commosse per loro, soli nella barchetta, spaventati, in lotta con le onde che si rifrangevano contro il monte, e squarciò la cappa di nubi chiamando Tritone, che soffiando nella sua grossa conchiglia gocciolante adunò i fiumi e le sponde dei mari ordinando a tutti di ritornare entro i loro antichi margini, e in breve i fiumi furono, di nuovo, anche se turgidi e rapinosi, nei loro letti, e il mare ritornò ai suoi confini lasciando le spiagge bagnate e piene di resti di quella che era stata la vita degli uomini e degli animali». Dopo il grande Diluvio che Ovidio narra nelle Metamorfosi, e che compare in gran parte dei miti e delle religioni, la rifondazione del mondo nasce su una barchetta, forse una canoa. L’uomo sulla barca, la coppia, in questo caso, è la rappresentazione della nostra esistenza nel pianeta. La canoa, il canottaggio, sono due derivazioni di questa figura originaria. Chi voga sulla canoa è colui che scivola sull’acqua, che non affoga nell’elemento del mistero, ma entra con lui in simbiosi, e ne gode l’ebbrezza.Prima del vento, prima del motore, sono le braccia dell’uomo a muoverlo sull’imbarcazione scivolante sull’acqua. Poi, nel tempo della storia, remare diviene anche fatica e dolore, per gli schiavi nelle galee, mentre rimane gioiosa traversata nei Mari del Sud, e poi sport magnifico, particolarmente praticato e insignito nei grandi college inglesi, Cambridge, Eaton. Il canottaggio, specificamente, che si pratica ai Giochi Olimpici fin dal 1900, è uno sport di velocità e resistenza, barche affusolate, lunghe, per ridurre la resistenza dell’acqua. È uno sport esaltante per lo spettatore: chi abbia assistito alla gara annuale tra le quattro repubbliche marinare, sa che non si tratta di un’attrazione turistica ma di una rievocazione di uno dei momenti più gloriosi dell’Italia: Genova, Venezia, Pisa, Amalfi, le repubbliche mitiche rappresentate dai canottieri. Figuriamoci le Olimpiadi: canottaggio, nuoto e tuffi sono la celebrazione del rapporto dell’uomo con l’acqua, elemento di origine della vita e sede del mistero.I trionfi dei fratelli Abbagnale hanno rievocato al mondo, e per sempre, la nostra nazione nata dalle acque del Tevere. Inglesi e italiani, i più grandi canottieri moderni: i primi rappresentanti del grande impero sulle acque nato nell’età elisabettiana, i secondi campioni di continuità del mondo italico e romano, con i suoi pontifex e i riti tiberini. Indubbiamente le telecronache di Giampiero Galeazzi hanno contribuito alla risonanza mondiale delle imprese abbagnalesche. Io facevo parte di quell’esercito non violento di italiani commossi e esaltati. Con Carmine e Giuseppe Abbagnale siamo diventati ancora più italiani.Lei capovoga, suo fratello Carmine prodiere. Due fratelli invincibili per più di un decennio. Non le sembra una fiaba? Se quella coppia vincente non fosse stata di due fratelli, sarebbe stata meno leggendaria…«È difficile comprendere oggi cosa sarebbe accaduto allora se fossi stato in coppia con un altro. Del resto non abbiamo mai cercato di diventare leggenda e men che meno fiaba. Però tutto quello che è avvenuto intorno a noi è arrivato in anni pionieristici per il canottaggio e, forse, i risultati del “due con” dei fratelli Abbagnale hanno svegliato dal torpore il mondo sportivo del canottaggio e dell’Italia intera. Questo, condito dalle cronache di Galeazzi, ha realizzato quel mix leggendario che tutti amano ricordare». Dall’esterno eravate una coppia mitica, completata dal bravissimo “piccoletto” Di Capua. Il canottaggio è considerato uno degli sport che richiedono la massima potenza fisica: che peso aveva la fatica? «Vede, molti pensano che il canottaggio sia fatica, lacrime e sudore. C’è anche un po’ di tutto questo, ma essenzialmente il canottaggio è armonia, ritmo, tecnica, condivisione, amicizia, forza, fisicità e poi tanto allenamento che genera fatica. Una fatica gradevole, perché è piacevole quello che si fa e soprattutto l’obiettivo che si vuole raggiungere: far sventolare il tricolore sul pennone più alto sentendo l’Inno d’Italia. Questa è leggenda e questo è il momento in cui capisci che tutto quello che hai fatto è servito a qualcosa».Stefania Belmondo ha affermata, in questa serie di incontri, che senza fatica la vita è incompleta. Che ne pensa?«Può essere, però aggiungerei che il senso della vita è anche amicizia e condivisione e il canottaggio è tutto questo. Sicuramente non è sacrificio, ma impegno costante e attenzione nella vita che si conduce e in quello che si fa». Mario Luzi, in una sua magnifica poesia, esclama: «Felici voi nel movimento», fermandosi a contemplare i canottieri sull’Arno. Dal ponte il poeta interrompe la sua meditazione, inalandone un potente senso di vitalità, grazie alla vista dei canottieri. Lei provava anche ebbrezza?«Io alla fatica antepongo il ritmo scandito dai remi che si immergono nell’acqua. La sensazione più bella che ricordo è quella di uscire in acqua nel mare di Castellammare di mattino presto e sentire solo lo sciabordio della barca che solcava il mare, i nostri rumori che facevano a gara con il garrire dei gabbiani che ci svolazzavano intorno. Eravamo noi, la nostra barca, e la natura che ci circondava il nostro regno, ma non v’era mistero: solo consapevolezza di essere lì, e non per caso. Una volontà ferrea di fare bene ciò che ritenevamo essere il meglio per noi, per la nostra società e per l’Italia».Ma al traguardo, al momento del trionfo, provate anche l’ebbrezza della vittoria e della gloria? Jury Chechi ci ha detto che non crede a un campione che neghi di aver provato l’ebbrezza della gloria, l’orgoglio della vittoria. Che mi dice?«Ci si allena, ci si impegna e si tende alla maniacalità delle ripetizione del movimento sempre più perfetto prima per essere i migliori, e poi per vincere rispettando gli avversari. Quando si riesce a salire sul podio, possibilmente quello più alto, è vero ci si sente invincibili e la gloria è palpabile intorno a te. Un momento di gloria che si condivide con tutti, ma non appena si scende dal podio diventa quasi sentimento personale e si incomincia a pensare al prossimo obiettivo da raggiungere». Pensiamo alle metafore del remare: «Rema!», per dire “obbedisci!”, «Quello rema contro», «Siamo tutti sulla stessa barca»… Sembra che il remare sia metafora della sofferenza della vita, ma anche del senso del dovere, il senso di appartenenza a un equipaggio, a una comunità…«Oggi non si rema più per lavoro, ma solo per piacere e per sport, ma quanto lei dice è vero: se uno vuole far comprendere che vai per conto tuo, allora non sei in sintonia con l’equipaggio, e “remi contro”. Sono davvero le metafore della vita di tutti i giorni, fatta di condivisione e di amicizia.In altre civiltà, dalla Polinesia ai Caraibi, remare era naturale come camminare, dato che ci spostava da un’isoletta all’altra… Maurizio Damilano, un’altra stella del nostro Dream Team, dice che camminare è insito nella natura umana, cosa non dimostrabile per il correre. Remare è naturale? Perché, se non lo è, qualcuno decide di farlo, sottoponendosi a fatiche immense?«Camminare è naturale, marciare o sottoporsi a un’estenuante maratona non è naturale. Remare per diletto è naturale, remare per far correre più velocemente la barca non è naturale. Lo diventa però nel momento che lo si fa senza fatica, ma esprimendo solo la forza fisica acquisita con l’allenamento quotidiano finalizzato ad armonizzare corpo e mente. Ecco, è la mente che allena e che fa diventare la fatica una vera gioia».Che effetto le fa che i nomi suo e dei suoi fratelli Carmine e Agostino spicchino in tre fermate della metropolitana di Londra, omaggio degli inglesi sconfitti ai vincitori?«Mi fa piacere, perché significa che c’è rispetto per quello che abbiamo dimostrato di saper fare. E poi sono stati proprio gli inglesi a superarci ai Giochi di Barcellona. Un profondo rispetto reciproco riscontrato nell’occasione dei Giochi di Londra 2012, con l’intitolazione di queste fermate della metropolitana londinese».L’Italia che vince con i rematori, con i fondisti come Stefania Belmondo, con i marciatori come Damilano, è un Paese che sa resistere, e alla fine trionfare attraverso la sofferenza. Ma sono ori, sono trionfi di trenta anni fa…«Quello italiano è un popolo che sa rinascere dalle ceneri, è un popolo abituato a emigrare e fare ritorno, è un popolo che si appassiona, ma che sta diventando sedentario. Noi genitori dobbiamo saper educare i nostri figli a usare la tecnologia, ma allo stesso modo a capire che la vita, quella vera, è fuori: nella strada, tra la gente e anche nell’acqua. Che i soldi sono una chimera e che la celebrità, quella duratura, si acquisisce con l’impegno e con la resistenza. Se sappiamo educare i nostri figli a questo tipo di mentalità, l’Italia continuerà ad avere tanti Abbagnale, Belmondo, Damilano, Chechi e tanti altri».
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