martedì 24 novembre 2015
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La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio capace di accogliere una decina di commensali (non un tavolino, confinato in un angolo di un cuocivivande!) era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come famiglia o come amici. La tavola, alla quale 'passiamo', non da soli ma con altri, va abitata. A tavola si dovrebbe convergere per mangiare da uomini, non da animali. Per questo la tavola e sempre stata percepita come l’emblema dell’umanizzazione, il luogo per eccellenza in cui ci si umanizza lungo tutta la vita, da quando da piccoli si e ammessi alla tavola ancora sul seggiolone, fino alla vecchiaia.  Anche in queste due fasi estreme della vita stiamo a tavola, magari aiutati da altri, ma stiamo pur sempre a tavola. Il nostro stare a tavola dice la nostra libertà: libertà di figli in famiglia, libertà di amici che si invitano, libertà di chi serve e qualità «signoriale » di chi è servito. Ma a tavola si sperimenta anche l’uguaglianza, un’uguaglianza ordinata: tutti sono chiamati a mangiare con gli stessi diritti, vecchi e bambini, adulti e giovani; tutti possono prendere la parola, domandare e rispondere. A tavola si impara a parlare oltre che a mangiare, si impara ad ascoltare e a intervenire nella convivialità.  La tavola ha un magistero decisivo per noi e per ogni essere umano che viene al mondo: ne siamo consapevoli? Sì, la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola, ma in realtà è altrove. Appena ieri si stava a tavola con il giornale aperto accanto al piatto o la televisione accesa davanti a noi, oggi ciascuno guarda il proprio tablet o lo smartphone: come siamo imbarbariti... La tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia, dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il luogo della massima estraneità. È vero che normalmente si mangia con gli stessi commensali; è vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al massimo a tre persone, sembra che non ci siano parole da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che l’assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più desiderosi dell’ascolto di chi ci sta davanti. Stare a tavola, abitarla, è un’arte ma è innanzitutto il quotidiano volto contro volto dell’amato/a, del fratello/sorella, dell’amico/ a, dell’altro/a che mangiando con me vive un’azione di comunione straordinaria. Si vive dello stesso cibo, ci si nutre nutrendo le relazioni. La condivisione del cibo è inerente alla nostra condizione di ospiti sulla terra. Omnia sunt communia: le cose e soprattutto i frutti della terra sono di tutti. E la tavola, luogo dove gli uomini e le donne non si pascono ma mangiano, non può che essere il luogo della condivisione. Certo, si tratta di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, perché questa è la responsabilità di ogni persona verso chi non ha né pane né acqua per vivere; ma si tratta anche di avere a tavola l’urgenza, il sentimento di «fare comunione » di ciò che si ha davanti. Qui si mostra l’ethos eucaristico di cui ciascuno è capace: basta infatti tendere la mano e prendere la mela più grande e bella, lasciando le meno belle agli altri, per dichiarare la propria non volontà di condivisione. Ognuno può consumare ciò che gli spetta, dopo aver condiviso ciò che vi è sulla tavola, altrimenti toglie agli altri, in qualità o quantità, ciò che è destinato a tutti. Non è un caso che i primi cristiani «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Solo se c’è condivisione, ci possono essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al povero, è una tavola veramente umana. Si può anche mangiare poco, anche solo pane e vino, ma se lo si condivide è grande festa, è vera comunione! Infine, proprio perché la tavola è fonte di piacere, il mangiare e il bere procurano gioia, allegria. Quando vogliamo rallegrarci, fare festa, sentiamo il bisogno di celebrare la vita con un pasto, invitando altri alla nostra tavola. Per la nascita di un figlio o di una figlia, per segnare le tappe del loro crescere, per festeggiare un traguardo da loro raggiunto, per celebrare l’amore, per rallegrarsi con un amico ritrovato, si imbandisce la tavola e si fa un banchetto. E più si vuole festeggiare, più il banchetto è abbondante. Anche Gesú, quando voleva consegnare un’immagine eloquente della vita del regno di Dio, dove non ci saranno più la morte né il lutto né il pianto, ricorreva all’immagine della tavola e del banchetto.  Un tempo, per gente che pativa la fame, la tavola era un sogno; oggi, che si può mangiare con abbondanza, dentro di noi non vi è spazio per un’immagine più evocativa del banchetto, per esprimere una vita bella, buona, felice, una vita piena. La tavola è l’anticamera dell’amore, un luogo e un momento che non assomiglia a nessun altro, una realtà affettiva e simbolica antica come l’umanità, la possibilità di una comunicazione privilegiata e di una trasfigurazione del quotidiano. Certo, ci vuole sapienza per vivere la tavola, ma la tavola e il cibo hanno la capacità magisteriale di insegnarcela. Mettiamoci alla loro scuola.
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