domenica 21 maggio 2023
Per i 150 anni della morte di Manzoni la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano racconta l'«orribile flagello» attraverso le testimonianze d'epoca e che è una dei protagonisti dei Promessi sposi
Giuseppe Vallardi (1784-1861) Trionfo e danza della morte, o Danza macabra a Clusone. Dogma della morte a Pisogne, nella provincia di Bergamo; Milano, Pietro Agnelli, 1859; tav. I

Giuseppe Vallardi (1784-1861) Trionfo e danza della morte, o Danza macabra a Clusone. Dogma della morte a Pisogne, nella provincia di Bergamo; Milano, Pietro Agnelli, 1859; tav. I - undefined

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In occasione del centocinquantesimo della morte di Alessandro Manzoni (22 maggio 1873) una mostra della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, curata da Marzia Pontone con Giuliana Nuvoli e Marco Versiero, ne celebra il legame storico e culturale con la città affidandolo alla riflessione sul tema delle pandemie nella storia e prendendo spunto dalla peste milanese del 1630 da lui descritta nei Promessi Sposi.

L’“orribile flagello” è per Manzoni un motore narrativo e una lente che fornisce un osservatorio impietoso sulle fragilità morali, sociali e politiche dell’umanità nella Milano spagnola del Seicento. È anche però un emblema universale di tragedie passate e presenti, un tema di riflessione che resta ancora centrale al nostro tempo dopo la drammatica esperienza vissuta con la pandemia di Covid-19. Pandemia (dal greco pan, tutto e demos, popolo, a indicare una malattia infettiva che coinvolge “tutta la popolazione”) è il termine moderno con cui si designa oggi quella che in passato era chiamata pestilenza, cioè un’epidemia di peste. Dove l’espressione “peste” non necessariamente stava a significare la specifica patologia che oggi conosciamo, ma spesso più semplicemente indicava il peius morbus (peggior morbo), cioè una grave malattia che coinvolgeva la comunità.

Dal presente al lontano passato le pestilenze hanno da sempre segnato il destino dell’umanità. Così come avvenne per le cosiddette pesti borromaiche del Ducato di Milano. La prima tra il 1576 e il 1578, quando arcivescovo della città era Carlo Borromeo e la seconda nel 1630, descritta appunto dal Manzoni, allorché arcivescovo era Federico Borromeo, cugino di san Carlo. Erano tempi in cui era ancora ricorrente la preghiera che da secoli costituiva l’invocazione quotidiana della povera gente nelle contrade di un’Italia devastata da ricorrenti conflitti, tormentata da frequenti carestie e sconvolta da onnipresenti malattie. A fame, peste et bello libera nos, Domine: “Liberaci, o Signore, dalla fame, dalla pestilenza e dalla guerra”.

La peste, insieme a guerra e carestia, è un tema cruciale del pensiero manzoniano e diventa, accanto a Renzo e Lucia, protagonista fondamentale del suo romanzo. Il rigore storico della sua descrizione trae origine da un’accurata lettura delle cronache e delle fonti contemporanee. Innanzitutto il De peste, un libro di Giuseppe Ripamonti, storico e sacerdote milanese, edito nel 1640 e citato sovente nel romanzo dal Manzoni, che è un testo essenziale per conoscere gli avvenimenti della pestilenza di dieci anni prima, che egli descrive con dovizia di particolari. Poi il De pestilentia, un manoscritto del 1630 di Federico Borromeo, alle cui pagine egli affida la descrizione del devastante spettacolo della morte e le riflessioni di un uomo sconvolto, nonostante la fede religiosa, dallo sconquasso sanitario, sociale e spirituale creato dalla peste. Da questo testo Alessandro Manzoni trarrà più di uno spunto per trasformare le scarne parole dell’arcivescovo in famose pagine letterarie, come nel mirabile episodio della madre di Cecilia.

Infine i testi sull’epidemia dei “medici della peste” più volte citati: Alessandro Tadino (1580-1661), il primo a rendersi conto che la peste era penetrata in città, allievo e assistente del protofisico Ludovico Settala (1552-1633), «allora poco men che ottuagenario – come lo descrive il Manzoni –, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere reputatissime», degno quindi di una fama che tuttavia non fu sufficiente a metterlo al riparo «dall’animosità e dagli insulti del volgo profano» che ritenevano essere egli uno dei responsabili della diffusione del morbo in città. È la logica del pregiudizio della folla verso persone e fatti, che di fronte alla paura e all’ignoranza per un male oscuro, temuto e troppo spesso negato nel suo sorgere, com’era avvenuto con la peste milanese e come purtroppo assurdamente è accaduto anche con la recente pandemia, fa gridare all’untore perché occorre trovare i responsabili del contagio.

Il messaggio che la “peste del Manzoni” ha offerto ai contemporanei e lascia ai posteri è la necessità che si sappia affrontare con consapevolezza le grandi domande che da sempre interrogano l’umanità, in modo particolare per la fragilità e la brevità della vita, esposta in modo imprevedibile alla malattia, alla fame, alla guerra. La mostra manzoniana della Braidense offre un’occasione per interrogare i visitatori sulle grandi tematiche universali della malattia, della cura e della morte attraverso il superamento dei pregiudizi, aspetti resi ancora più attuali dalla recente pandemia di Covid-19.

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