giovedì 22 agosto 2013
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Viene in mente una frase di Wieland Wagner muovendosi a metà agosto per Bayreuth. «Vogliamo fuggire il culto di Wagner», annotava il nipote del cantore di Sigfrido e Brunilde parlando del nonno. Sembra quasi che l’abbiano preso alla lettera in questo comune bavarese di 70mila anime, a quaranta minuti di treno da Norimberga, che il mondo conosce come la città di Wagner. Eppure qui il genio romantico non è né nato, né morto. Ma ci ha trascorso l’ultimo scorcio della vita e soprattutto ha voluto che venisse costruito un teatro a misura del suo Anello del Nibelungo (Der Ring des Nibelungen).Ecco, nella terra che ogni estate ospita il Festival wagneriano, il bicentenario della nascita ha un’impronta quasi dissacrante. Non per voler rigettare l’eredità del teorico (e compositore) dell’«opera d’arte totale» che anzi è parte integrante dell’identità tedesca; ma per mostrare un Wagner nostro contemporaneo che è in grado di andare a braccetto con i linguaggi e le crisi di oggi.Del resto, sostiene il regista tedesco Harry Kupfer, «se lui fosse vissuto alcuni decenni più tardi, si sarebbe trasferito a Hollywood». E, come Hollywood, Bayreuth ti accoglie con il volto del maestro impresso sui marciapiedi per tracciare la «camminata di Wagner». Riempie strade e piazze di statuette viola o blu con il rivoluzionario musicista sul podio all’insegna del motto «Wagner dirige Bayreuth». Trasforma la torre del municipio in maxischermo dove valchirie o cigni sono proposti in chiave pop art. Fino ad arrivare alla massima demitizzazione nel tempio della musica wagneriana, il suo Festspielhaus, dove nel 1876 mise in scena per la prima volta l’intera Tetralogia.Proprio il Ring è la produzione del «Giubileo di Wagner», come qui viene chiamata la ricorrenza. Nella lettura che ne dà il regista d’avanguardia berlinese Frank Castorf, chiamato dalle sorelle Eva e Katharina Wagner ad allestire i quattro drammi, soltanto i dettagli rimandano al naturalismo caro al maestro. Il resto è una trasposizione simbolica nell’ultimo secolo dove l’oro è il petrolio. Almeno nelle intenzioni del regista. Perché Castorf sembra più indagare le «periferie esistenziali», si direbbe con un’espressione di papa Francesco. Ci riesce soprattutto nell’Oro del Reno ambientato lungo la statunitense Route 66 dove fra un motel e un distributore di benzina fa sposare l’imponenza della musica con una sorta di film ben riuscito. E può anche avere una logica trasformare la spada di Sigfrido in kalashnikov. Però si fatica a trovare un filo narrativo nelle tre Giornate: con Valchiria che va in scena in mezzo ai pionieri delle escavazioni in Azerbaigian, Sigfrido fra un ritoccato monte Rushmore con i volti di Marx, Lenin, Stalin e Mao e la fermata della metropolitana berlinese di Alexanderplatz, e il Crepuscolo degli dei in un’industria chimica.Così accade che la conclusione di Sigfrido diventi una Corrida televisiva. Al pari della trasmissione di Canale 5, il pubblico arriva a teatro con fischietti e sonagli. Cala il sipario e tutto si trasforma in gazzarra. Non ne fanno, comunque, le spese i cast dei quattro drammi e il 41enne direttore d’orchestra russo Kirill Petrenko. Perché a Bayreuth si va soprattutto per ascoltare il «massimo» Wagner dal punto di vista orchestrale e vocale. E si è disposti ad attendere fino a dieci anni per un biglietto. Il teatro «formato Ring», con il suo golfo mistico e la straordinaria acustica, esalta le partiture e gli strumenti prediletti da Wagner. Petrenko dà il meglio nell’Oro del Reno e, di fatto, salva la Tetralogia del bicentenario dalle contestazioni.Sul palco spiccano Martin Winkler (Alberich), Wolfgang Koch (Wotan) e Franz-Josef Selig (Hunding). Gioca in casa Anje Kampe (Sieglinde) osannata dagli spettatori con Johan Botha (Siegmund) e Claudia Mahnke (Waltraute). Lance Ryan (Sigfrido qui e nel Ring alla Scala) trova a Bayreuth una dimensione a lui più consona anche se divide i «fedelissimi» wagneriani. E Catherine Foster è una Brunilde applaudita seppur non susciti emozioni.Si esce dal Festspielhaus con i temi conduttori che riecheggiano nelle orecchie. Ma anche con l’immagine della signora a fianco che ha una macchia di ketchup sull’abito da sera: nell’intervallo, che secondo il rito di Bayreuth dura un’ora e si trascorre soltanto all’aperto, ha mangiato un panino con i «wurstel del Festival» e la salsa è maledettamente scivolata nel vestito.
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