martedì 8 marzo 2022
È la data prevista per rottamare un simbolo di cooperazione tra varie nazioni. Il suo posto in orbita sarà preso da cinesi e privati. Ma la guerra potrebbe accelerarne la fine
La Stazione spaziale internazionale

La Stazione spaziale internazionale - Epa/Nasa

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Tutti sperano che la Stazione spaziale internazionale (Iss) possa vivere fino al momento designato della sua fine, previsto attorno al 2030. È, infatti, un simbolo che va al di là dell’importanza scientifica. È il simbolo della cooperazione umana in un luogo dove è difficilissimo vivere, come è lo spazio, un luogo dove per la sopravvivenza è indispensabile la massima cooperazione al di là della lingua, della cultura e di ogni pensiero politico. Le vite degli astronauti dipendono l’una dall’altra ed è per questo che per anni hanno imparato le reciproche lingue, hanno mangiato il cibo che si sono scambiati e si sono fidati ciecamente l’uno dell’altro.

Questo è il motivo per cui la Iss è sempre stata un faro di speranza per l’umanità, anche quando sulla Terra c’erano conflitti. E lo spazio è sempre stato così, a partire dallo sbarco lunare quando John Kennedy e Nikita Krusciov attraverso delegati e diplomatici ipotizzarono di sbarcare insieme sulla Luna. Poi, qui sulla Terra, ciò sembrò troppo.

Ora però, la guerra russo-ucraina (come Avvenire ha scritto nei giorni scorsi) ha messo in seria crisi i rapporti tra l’agenzia spaziale russa, la Roscosmos, e la maggior parte delle altre agenzie spaziali che lavorano sulla Iss, dalla Nasa all’Esa. Subito dopo le misure inflitte dagli Usa alla Russia, parole di fuoco sono arrivate dal direttore della Roscosmos, Dmitry Rogozin, il quale ha detto che se davvero verranno applicate c’è il rischio che la Russia non sia più in grado di costruire nuove navicelle Progress che sono adibite al trasporto di materiale e viveri alla Iss, ma che, soprattutto, sono anche il mezzo che serve per innalzare di tanto in tanto l’intera stazione orbitante dalla lenta e naturale caduta verso la Terra. Ciò vorrebbe dire che senza il loro apporto la stazione inizierà a precipitare senza controllo e nell’arco di uno o due anni cadrà sul nostro pianeta.

Negli ultimi giorni la Roscosmos ha fatto sapere di aver chiuso gli esperimenti che nel settore russo della stazione venivano portati avanti con i tedeschi. Ma intanto lassù due russi, un europeo e quattro americani continuano a lavorare. E un lumicino di speranza continua ad essere acceso. Il prossimo 18 marzo partiranno tre cosmonauti russi (dopo pochi giorni torneranno a terra tre componenti che si trovano lassù adesso), il 31 marzo sarà la volta di un equipaggio interamente privato e poi il 15 aprile altri quattro astronauti raggiungeranno la Iss tra i quali vi sarà anche Samantha Cristoforetti con la missione Minerva. E al momento questi movimenti hanno ricevuto l’ok per proseguire.

Se il lumicino rimarrà acceso e almeno nello spazio gli uomini dell’Est e dell’Ovest continueranno a cooperare forse da lassù si riuscirà a scavalcare anche questo triste periodo e portare la Iss fino al 2030, anno previsto per essere abbandonata e deorbitata. Per quell’operazione ci vorranno tre navette appositamente lanciate da Terra. È quanto ha stabilito la Nasa in un documento da poco pubblicato. Saranno proprio tre Progress ad occuparsi dell’operazione, perché queste navicelle si agganciano alla Iss nella giusta posizione per questo tipo di lavoro. Non è escluso che lo possano fare anche altre navette, ma sarebbe necessario studiare un nuovo piano di volo e non è così semplice come potrebbe sembrare.

Ipotizzando che si possa arrivare al 2030 in cooperazione, le tre Progress saranno cariche di carburante e una volta agganciate alla stazione accenderanno i loro motori per portarla a quote sempre più basse, finché ad un certo punto inizierà letteralmente a precipitare.

Ma tutto questo sarà stato calcolato con estrema precisione. L’atmosfera farà il resto, ossia inizierà a bruciare i vari moduli di cui è composta la Iss. Tutto semplice? Non proprio, perché i grandi pannelli solari potrebbero farla roteare su se stessa rallentando il processo di fusione dei moduli stessi, così che qualche pezzo, anche di una certa dimensione, potrebbe raggiungere il mare. È per questo che si è scelto un luogo remotissimo dell’Oceano Pacifico per fare cadere quel che rimarrà della stazione spaziale, un luogo chiamato Punto Nemo, dove le terre più vicine distano almeno 2.700 chilometri.

Ma perché non staccare i moduli gli uni dagli altri e farli precipitare indipendentemente? Perché non è stato previsto nel progetto costruttivo e poi perché i moduli non sono provvisti di un sistema di navigazione e di un motore proprio in grado di cambiare rotta. La scelta di rottamare la Iss nel 2030 non è legata al fatto che sarà troppo vetusta per continuare a vivere nello spazio, ma il 2030 è il limite oltre il quale l’ente spaziale americano ha deciso di non finanziare più il progetto per dedicarsi alla Luna e a Marte.

Al posto della Iss tuttavia, vi saranno altre stazioni spaziali. A partire da quella cinese già parzialmente in orbita. E poi sono già in costruzione i moduli della prima stazione privata costruita dalla Axiom Space che, se tutto andrà per il meglio, verranno dapprima agganciati alla Iss, per poi essere staccati e vivere di vita propria alla morte di quest’ultima. E intanto anche altre società private stanno lavorando ad altre stazioni private perché lo spazio attorno alla Terra è ancora molto importante per la scienza e non ultimo per la cooperazione internazionale.

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