martedì 18 aprile 2017
A cento anni dai fatti di San Pietroburgo un saggio a cura della storica inglese Helen Rappaport mette insieme per la prima volta le voci degli stranieri presenti in città nei primi giorni ...
Guardie rosse a cavallo a Pietrogrado, durante la rivoluzione del 1917

Guardie rosse a cavallo a Pietrogrado, durante la rivoluzione del 1917

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Quei nomi in codice - Davis, Cole, Lane corrispondevano rispettivamente a Lenin, Trockij e Kerenskij e ricorrevano spesso nei dispacci ricevuti dai servizi segreti britannici nel 1917. Somerville, la spia che li inviava sotto falso nome da San Pietroburgo, era in realtà il grande scrittore e commediografo inglese William Somerset Maugham, mandato in Russia dall’intelligence di Sua Maestà per cercare di ostacolare il colpo di stato dei bolscevichi. Ormai giunto al culmine della sua fama, Maugham fingeva di lavorare come inviato di un noto quotidiano, ma era invece impegnato a fornire sostegno al governo provvisorio di Kerenskij, che guidò il paese nei pochi mesi che separarono l’abdicazione dello zar dall’ascesa al potere di Lenin. Il suo sguardo appare uno dei più informati di fronte alla portata storica di quanto stava accadendo in quei giorni, e che di lì a poco avrebbe cambiato per sempre la Russia e il mondo intero.

Al contrario dello zar Nicola II il quale, secondo quanto raccontò l’ambasciatore statunitense David Francis, «sembrava non rendersi conto di essere seduto sul bordo Il 24 febbraio 1917, mentre nelle strade di San Pietroburgo riecheggiano i colpi di fucile, la principale preoccupazione dei ricchi frequentatori dei teatri cittadini è quella di trovare i biglietti per la prima dell’Ispettore generale di Gogol’. Il giorno dopo, mentre i manifestanti invadono la città, un diplomatico francese esclude categoricamente che la rivoluzione stia per dilagare perché - spiega - «gli insorti non hanno alcol, né un leader, né obiettivi precisi». Arthur Ransome, giornalista inglese del Daily News, è invece uno dei pochi a com- prendere fin da subito la gravità della situazione, e in una lettera alla sua famiglia scrive che la vita in città si fa ogni giorno più difficile, e pane, latte, burro e zucchero sono ormai quasi introvabili. Nel suo nuovo, affascinante libro Caught in the Revolution. Petrograd, Russia, 1917 (Hutchinson), la storica britannica Helen Rappaport ricostruisce l’atmosfera dei giorni della rivoluzione russa di febbraio attraverso gli sguardi increduli della variegata comunità straniera presente a San Pietroburgo.

Diplomatici, giornalisti, impresari, commercianti e operatori di enti benefici che prima del conflitto mondiale erano stati attirati dalla straordinaria crescita economica del Paese e trascorrevano le loro giornate nei club, nelle ambasciate o nelle sale del lussuoso hotel Astoria, quasi senza accorgersi di essere diventati un’isola in una polveriera di malcontento pronta a esplodere da un momento all’altro. Mentre il popolo era alla fame, i saccheggi e le sparatorie si susseguivano giorno dopo giorno e il governo stava per proclamare lo stato d’assedio, loro continuavano a fumare sigari pregiati e a pasteggiare a champagne tenendo diari o scrivendo lettere che inviavano regolarmente in patria.

È anche su questo materiale - finora in gran parte inedito - che Rappaport ha incentrato la ricerca confluita in questo volume, uscito opportunamente proprio in occasione del centenario della rivoluzione. Già autrice di opere importanti sulla dinastia Romanov e sull’Era vittoriana, la storica inglese non offre un resoconto organico su quei giorni cruciali ma una prospettiva affascinante e del tutto inedita, attingendo a piene mani dagli archivi russi, statunitensi, francesi e britannici. Col trascorrere delle settimane - scrive - persino quell’élite di stranieri imparò il significato della parola russa stichija, ovvero «la spontanea anarchia nella sua forma più primordiale», e anche all’interno dei circoli più esclusivi iniziarono a circolare storie terribili circa le vittime della folla inferocita, i poliziotti (i cosiddetti “faraoni”) tirati giù dai tetti, linciati o gettati nella Neva ghiacciata dove morirono assiderati.

Ciononostante molti vollero convincersi che l’abdicazione dello zar e la fine dell’autocrazia dell’impero russo avrebbe avuto effetti positivi e durevoli sul paese. Il diplomatico britannico Oliver Locker Lampson lodò apertamente la rivoluzione e «il popolo nobile e generoso che l’ha resa possibile». L’ambasciatore americano David Francis si spinse oltre, definendola «la miglior rivoluzione di tutti i tempi, la meglio gestita e la più riuscita». D’altra parte, il primo atto della rivoluzione russa è stato spesso descritto dagli storici come una fase pacifica e caratterizzata dall’unità tra i russi di tutte le classi sociali. Tuttavia non sarà necessario attendere troppo tempo per far svanire ogni speranza e vedere la colta ed elegante San Pietroburgo - ribattezzata Pietrogrado subito dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale - diventare «la città più pericolosa, schifosa e maleodorante di tutta Europa».

Lo stupore col quale molti osservatori stranieri accolsero la successiva presa del potere da parte dei bolscevichi - definiti «un branco di tagliagole, sporchi, con la barba lunga» dal giornalista canadese Francis Harper - dà la misura di quanto poco essi avessero compreso il paese nel quale stavano vivendo. «Cercammo di dimenticare quelle strade desolate suonando il piano e cantando canzoni, continuando a bere e a ridere per celare la tristezza che albergava nei nostri cuori», raccontò la moglie dell’ambasciatore statunitense. E mentre assistevano attoniti al crollo di un paese che era esistito soltanto nella loro immaginazione, gli stranieri preferirono convincersi che i russi erano «un popolo di folli dediti a uccidersi l’un l’altro» o, nella migliore delle ipotesi, «bambini capricciosi e ribelli».

Persino lo scrittorespia Somerset Maugham li definì impietosamente «gente rozza e arretrata» con «facce ignoranti e sguardi vuoti ». La fine è nota. Il 24 ottobre i bolscevichi presero i punti strategici della città e l’incrociatore Aurora sparò dando il segnale per la conquista del Palazzo d’inverno. «Il colpo di stato - conclude Rappaport - non fu la resa dei conti da parte di eroici lavoratori bensì la capitolazione del governo agonizzante e indifeso di Kerenskij».

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