martedì 21 luglio 2020
Una vasta ricerca di Paolo Sachet mostra come i riformati non fossero stati affatto gli unici a comprendere la rivoluzione di Gutenberg: la Curia romana si mosse anzi con tempestività
La stampa a caratteri mobili in una xilografia del 1568

La stampa a caratteri mobili in una xilografia del 1568 - WikiCommons

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Quando sei secoli fa Gutenberg inventò la stampa, una “rivoluzione inavvertita” si preparava a cambiare il corso della storia. La possibilità di passare dal manoscritto a un nuovo oggetto replicabile moltiplicava la circolazione della conoscenza, la estendeva a fasce sociali più basse e introduceva sulla scena uno strumento che aveva potenzialità strepitose. In un mondo profondamente religioso, in cui il primo volume pubblicato era stato la Bibbia, non sorprende che le autorità spirituali si accorgessero molto presto della nuova tecnica dei caratteri mobili, cogliendone vantaggi e pericoli. La Chiesa di Roma si mosse per introdurre meccanismi di censura e di controllo della circolazione libraria per evitare che testi critici verso la fede e la dottrina finissero nelle mani di incauti fedeli: a pochi decenni dalla nuova invenzione, i pontefici presero provvedimenti per disciplinare la diffusione di opere a stampa e individuarono nel teologo di riferimento del Papa – il Maestro del Sacro Palazzo – il “controllore” designato per la città di Roma. Nella percezione e negli studi, i provvedimenti di censura e le proibizioni emanate dalla Chiesa in quei decenni cruciali hanno tuttavia fatto scivolare in secondo piano gli sforzi delle autorità cattoliche di servirsi della stampa: se, ad esempio, è stato enfatizzato il ruolo dell’Indice dei libri proibiti, si è spesso trascurato il fatto che, in parallelo, proprio a Roma si cercasse di puntare sulla stampa come mezzo attivo per la politica culturale e comunicativa del papato. È su questo che si sofferma un libro uscito da poco per Brill: Publishing for the Popes. The Roman Curia and the use of printing (1527-1555).

La ricerca, condotta dallo studioso Paolo Sachet, si concentra sull’uso della stampa da parte della Curia romana. Il tentativo è quello di verificare, alla prova dei fatti, la tenuta di una vulgata che, per molti aspetti, è divenuta pensiero comune: che Lutero, cioè, e i riformatori fossero scaltri utilizzatori della stampa, a fronte di un papato passivo e refrattario a un uso del nuovo mezzo. Quello che il libro di Sachet rivela è che le cose, in verità, furono più complesse. Se non vi sono dubbi sulla lungimiranza della Riforma nel far risuonare le proprie idee attraverso i caratteri mobili, sarebbe però riduttivo considerare i successori di Pietro come semplici spettatori. Al riguardo, va notato come Sachet abbia scelto una cronologia di per sé indicativa: gli anni tra il 1527 e il 1555, un periodo precedente alla nascita di un meccanismo di censura centralizzato, avviato simbolicamente dalla promulgazione dell’Indice da Paolo IV (1558-1559). L’autore analizzare ciò che la Chiesa fece per e con la stampa, e non contro di essa. Vengono così portati alla luce gli esperimenti condotti dalla Curia in un trentennio, aperto dal trauma del sacco di Roma.

Quello che si dischiude è un quadro vivace. I modelli di imprese editoriali e tipografiche a cui la Curia può attingere sono numerosi, dalla Verona del vescovo Gian Matteo Giberti allo sforzo antiprotestante di un autore come Cochlaeus. In fermento è anche il contesto romano: il volume mostra il proliferare di esperimenti a partire dagli anni ’40. Si trovano stamperie nel convento di Santa Brigida a Roma, sotto il patronato dell’arcivescovo svedese Olao Magno; e, naturalmente, si profilano all’orizzonte quelli che sarebbero diventati i campioni della comunicazione, a stampa e per immagini, della Controriforma: i Gesuiti del Collegio Romano. L’intera Curia è coinvolta dai tentativi di servirsi del nuovo dispositivo: nelle vicende ricostruite dal volume si trovano personaggi eminenti, sia dell’entourage di Paolo III Farnese (1534-1549) sia di Giulio III (1550-1555). Vi è chi presta manoscritti, chi mette a servizio la sua esperienza, chi concede il suo patrocinio, economico e culturale.

In questa cornice, affiorano poi quattro “linee editoriali”, direttrici attorno alle quali gli esperimenti posti in campo sembrano concentrarsi. In primo luogo, furono avviate importanti edizioni dei Padri della Chiesa, per restituire alla cristianità un tesoro sino ad allora conservato nei manoscritti di chiese e conventi: in qualche caso, lo scopo è ribattere alle edizioni curate da esponenti della cultura protestante; ma perlopiù l’intento è offrire testi inediti. Né mancò lo sforzo, destinato a protrarsi per decenni, di pubblicare una versione ufficiale della Bibbia in latino, che avrebbe visto la luce solo nel 1592. Una seconda linea fu quella dei libri liturgici, su cui si lavorò intensamente anche al Concilio di Trento. Il terzo versante riguardò la storia della Chiesa: mentre a Trento si riaffermava il valore della Tradizione come fonte della Rivelazione, emergeva con urgenza il problema di scrivere il passato della Chiesa – la sostanza stessa della Traditio – in modo affidabile e ortodosso. La quarta area identificata dall’autore è infine quella delle edizioni nelle lingue orientali, che mostrano la volontà romana di aumentare l’influenza verso il Levante e prevenire analoghe azioni da parte dei protestanti.

In tutti i casi, a dominare la scena è la figura Marcello Cervini, cardinale a cui fu affidata la Biblioteca Vaticana e filigrana all’intera ricerca. Il futuro papa Marcello II si dimostra uno dei grandi fautori dell’uso della stampa da parte della Chiesa, capace di cogliere l’utilità della nuova invenzione per la diffusione della fede. Accompagnato da queste figure e dai loro libri, il volume di Sachet restituisce una realtà dinamica, in cui, lontano dagli stereotipi, anche la Curia di Roma capì l’importanza di uno strumento destinato a cambiare il mondo.

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