venerdì 6 dicembre 2024
Quel giorno le fiamme ridestarono le paure dei parigini, che però nella ricostruzione hanno dato nuova forza al motto della città: Fluctuat nec mergitur
L’incendio di Notre-Dame, 15 aprile 2019

L’incendio di Notre-Dame, 15 aprile 2019 - Benoit Tessier/Reuters

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Avevo appena dato una lezione presso la sede della Dante Alighieri a Parigi, in un palazzo affacciato su una stradina laterale prospiciente alla Senna nell’elegante settimo arrondissement. Camminavo verso la fermata del metrò che doveva riportarmi a casa, di buon passo, quasi di buonumore. Attraversando il Pont de l’Alma, lo spettacolo della Tour Eiffel stagliata su un tramonto di primavera roseo e rasserenante m’aveva calamitato lo sguardo. Quella sottile sensazione di agio di quando tutto sembra andare come deve andare. Improvviso, sul lato opposto del ponte, nel cielo sgombro di nuvole, un fumo: fumo subito alto, nerissimo. Impossibile non fermarmi a osservare: lo spettacolo di quella immensa porzione d’aria di colpo oscurata dalla colonna di fumo era tanto inatteso quanto minaccioso, sinistro. Subito una morsa già nota mi ha strizzato lo sterno. Apprensione, paura. Cosa mai poteva essere, quel fumo? Cosa mai poteva essere, ancora? Abitavo a Parigi da quasi dieci anni e avevo vissuto fatti terribili accaduti alla città. L’esperienza devastante della pandemia e del lockdown doveva ancora arrivare (l’inverno successivo), ma c’era stato il 2015, annus horribilis. Un anno incominciato con l’attentato alla redazione del giornale satirico “Charlie Hebdo” (7 gennaio, dodici morti) e poi, undici mesi dopo, la giornata del 13 novembre con quattro attentati terroristici di matrice islamica accaduti in simultanea (centotrentasette morti, sette dei quali tra gli attentatori), sferrati in punti diversi della città (quello al Café Le Carillon, praticamente sotto la mia casa).

Il trauma era ancora lì, ferita profonda e lenta a farsi cicatrice. Per quanto fosse passato già diverso tempo in senso cronologico, ancora poco ne era scorso sul versante della psicologia, sia individuale che collettiva. Come per tutti i parigini – lo si fosse per nascita, per scelta, per destino – anche in me un senso di costante allarme s’era depositato sotto pelle. Una sorta di serpentello velenoso sempre pronto a risvegliarsi e a infestare i pensieri virandoli verso la catastrofe, o ad amplificare piccole e banali preoccupazioni quotidiane trasformandole in apprensioni esagerate. A lungo, impressa a caratteri cubitali su striscioni appesi ai ponti e sui palazzi, si era vista la scritta Fluctuat nec mergitur, antico motto araldico di resilienza ora riproposto a simbolo della città. Ma per quanto “senza affondare e solo fluttuando”, dopo lo scempio di morte che aveva conosciuto Parigi ancora barcollava. Così, in quel tramonto d’aprile, la fumata nera sollevatasi di colpo nel cielo mi insinuò nella testa un interrogativo allarmato, che continuava a pulsare nel tragitto in metrò sino a casa. In strada, intercettando la conversazione tra due passanti ho saputo. Nel pieno centro di Parigi, sull’Île de la Cité, la cattedrale di Notre-Dame bruciava. Sconcerto, terrore. Nuovo attentato? Credo che nei primi istanti lo abbiamo pensato tutti, di nuovo scossi da stessa temperatura d’angoscia di quattro anni prima, durante l’annus horribilis. Il trauma, si sa, si compone di ripetizione perché per reiterazione si risveglia. Se hai provato un grande spavento e circostanze simili anche a distanza di molto tempo tornano a proporsi, ecco le nostre reazioni e sensazioni ripetersi identiche. Pochi istanti per piombare nella stessa paura di quattro anni prima, una paura insieme individuale e collettiva. Stesso vortice, uguale panico, sottile e incontrollabile. Il cuore della città, quindi tutta la città – un luogo simbolico, dunque il Paese intero – erano in pericolo, e tutte le nostre vite con loro.

Non si trattava di un attentato, lo si è capito presto. Ma rientrata a casa, un riverbero di allarme ha trovato nuova motivazione. Non più roseo, bensì rosso acceso, il tramonto dardeggiava fuori dalle mie finestre, mentre poco più in là (nemmeno un chilometro, in linea d’aria) bruciava la cattedrale gotica più imponente e importante di Francia. Come non bastasse, ardeva anche la fronte di mia figlia, allora bambina. Da poco, si affrettò a dirmi la baby sitter a discolpa del non avermi telefonato, le aveva misurato la temperatura scoprendo quel febbrone. Scottava, aveva quaranta, di lì a poco quarantuno. Impacchi sulla fronte usando una stoffa di cotone di continuo bagnata sotto l’acqua fredda, l’antibiotico corso a comprare dopo una convulsa telefonata col pediatra. In fiamme tutto: anche la mia testa completamente disorientata nell’affanno.

Così la serata e la notte del 15 aprile 2019 sono state per me un difficile viaggio nell’ansia, scandito da tappe indistinte, tra loro uguali, e da una paurosa sensazione di calore esagerato, ovunque mi girassi. Ardeva il monumento simbolo di Parigi, la città dove vivevo; ardeva la fronticina di mia figlia. Per ore ho continuato ad alternarmi tra lei che delirava, in preda a una febbre che si ostinava a non scendere, e il salotto dove il vasto schermo al plasma del televisore rimandava fissa (nessuna variazione) l’immagine di Notre Dame lambita e assediata dalle fiamme.

Ci sono volute molte ore per domare l’incendio. Nei miei su e giù nell’appartamento, io intanto grazie a veloci occhiate lanciate al televisore ho assistito anche al momento più drammatico e simbolico, quello del crollo della flèche, la guglia realizzata nell’Ottocento dall’architetto Eugène Viollet-le-Duc. È stato come veder cadere l’ultima speranza, la caduta nel vuoto di quello sperone lunghissimo la cui punta era in fiamme come fosse una freccia lanciata nel corso di una battaglia nel Medio Evo. Crollava il mondo; e non ricordo come – né se – io sia riuscita a trovare il sonno, quella notte in cui tutto ardeva.

Per mesi, per anni, lo spettacolo di Notre-Dame monca e incenerita ha turbato le nostre passeggiate e i nostri incubi diurni. Era come una balena abbrustolita nel mezzo di Parigi, la carcassa di quello che era stato sino a poco prima il magnifico tetto in legno della cattedrale, e che il fuoco con ostinata violenza ora s’era portato via. Poi, man mano, la prospettiva del restauro (dopo le donazioni miliardarie si è capito che in tempi non brevi, ma lo si sarebbe realizzato al meglio) ha assunto quella pure un forte valore simbolico. Notre-Dame, magnifico monumento offeso, sarebbe tornata a vivere, a splendere, a essere visitata da turisti di tutto il pianeta. Insieme a lei, Parigi avrebbe trovato medicina alle sue profonde ferite. Flucutat nec mergitur. Via dagli occhi l’immagine tetra della carcassa incenerita. Ma quel tempo lunghissimo con la minaccia del fuoco, mai più via dal ricordo.

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