Parole, gesti e luoghi: le rivoluzioni di san Francesco
Non solo nel celebre “Cantico delle creature”, ma anche negli scritti d rivolti ai frati emerge il desiderio di semplicità: il nuovo libro di Enzo Fortunato

Se Francesco fosse qui, cosa direbbe e farebbe? A 800 anni dalla morte, padre Enzo Fortunato con E se tornasse Francesco? (San Paolo, pagine 156, euro 14,00; prefazione di Erri De Luca) invita a tralasciare la leggenda e accogliere le verità più profonde del santo: pazienza, perdono, amore. Dal volume, in libreria da oggi anticipiamo il capitolo “Le rivoluzioni”. L’autore è minore conventuale, giornalista e presidente del Pontificio Comitato della Giornata mondiale dei bambini.
La prima grande rivoluzione che Francesco compì, senza scuotere apertamente la Curia romana o i vescovi del tempo, fu nel linguaggio. Nelle chiese, allora, si parlava esclusivamente in latino. Tutto – i concili, la liturgia, la predicazione – avveniva in latino. Francesco osservò con lucidità che il popolo non comprendeva. Vide la gente confusa, smarrita, e decise di parlare la lingua volgare, la lingua del tempo. Non lo fece solo nel celebre Cantico delle Creature, ma anche nei numerosi ammonimenti rivolti ai suoi frati. Nelle sue parole si legge il desiderio di semplicità: tutte le leggi divine lasciano da parte le tortuosità delle parole, gli orpelli, le ostentazioni di chi si perde cercando non il nocciolo ma la scorza, non l’essenziale ma il superfluo. Cercare non molte cose, ma il molto, il sommo, lo stabile bene. Tommaso da Celano sottolinea proprio questa radicale semplicità del linguaggio: è questa la prima, grande rivoluzione.
La seconda non riguarda solo le parole, ma il modo stesso di essere. Non si esprime soltanto con la semplicità del linguaggio, ma con quella delle vesti, dei gesti. A un certo punto, Francesco si rivolse così ai suoi frati: «Coloro che hanno già promesso obbedienza abbiano una tonaca con il cappuccio e un’altra senza cappuccio, se lo desiderano. Coloro che sono costretti dalla necessità possono portare calzature. Tutti i frati si vestano di abiti vili e possano rappezzarli con sacco o altre pezze, con la benedizione di Dio. Ma ammonisco a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti morbidi e colorati, e che usano cibi e bevande delicate. Piuttosto, ciascuno giudichi e disprezzi sé stesso».
Una libertà straordinaria: quella di chi crede profondamente in ciò che fa, senza usarlo come misura per giudicare gli altri. Francesco è qui acuto, intelligente. Gli abiti morbidi e colorati appartenevano proprio ai vescovi, ai cardinali: eppure, Francesco non vuole giudicarli, così come verrà egli stesso giudicato dalla gente del suo tempo. Questa è la seconda rivoluzione.
La terza, ancor più forte, riguarda il modo di predicare: la riflessione deve essere breve e semplice. Quante volte papa Francesco ha esortato i sacerdoti a fare omelie brevi! Lo ha fatto citando proprio l’esempio del santo d’Assisi, che usava le parole solo se necessario. È una lezione di essenzialità: essere brevi, incisivi, diretti.
E poi vi è un’ulteriore rivoluzione, quella dei luoghi. Francesco non predica più in chiesa. Va dove si trova la gente. Osserva che il popolo non frequenta i templi. E allora si sposta là dove la vita si svolge: nelle nuove agorà medievali, nelle piazze dei nascenti comuni. Il Medioevo è un’epoca di grandi trasformazioni: crescono i commerci, nascono le città, tutto si costruisce intorno alla piazza. Francesco comprende questo mutamento e predica nelle piazze. Non cerca le grandi cattedrali, ma i nuovi spazi pubblici. Le piazze diventano le nuove chiese, le nuove cattedrali.
Francesco aveva compreso una verità fondamentale: dove c’è l’uomo, là deve esserci Cristo. È lì che dobbiamo portare il Vangelo. Non attendere che l’uomo venga in chiesa, ma andare noi verso di lui. Come Gesù con i discepoli: «Andate in tutto il mondo e predicate la Buona Novella».
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