In mostra a Cremona la koinè padana di Boccaccio Boccaccino
A 500 anni dalla morte, il Museo diocesano dedica la prima esposizione a un pittore prezioso e monumentale, capace di fondere in una lingua personale classicismo ferrarese e innovazioni lagunari

In una troppo lunga stagione in cui le grandi città, salvo felici eccezioni, preferiscono offrire mostre pigre, dettate dall’esigenza di un ritorno in bigliettazione, le proposte più stimolanti arrivano dai gangli laterali della rete culturale. È il caso della bella mostra, nonché la prima, che meritoriamente il Museo diocesano di Cremona dedica a Boccaccio Boccaccino, figura eccellente di pittore ben nota al mondo accademico (il suo pedigree di studi va da Puerari a Longhi, da Gregori a Ballarin, Tanzi, De Marchi e conta perfino la tesi di laurea di un giovane Mario Soldati) ma assai meno al grande pubblico. I più appassionati forse lo ricordano come incipit dello straordinario ciclo di affreschi nella cattedrale cremonese che con Melone, Romanino e infine Pordenone segna uno degli apici della cultura figurativa anticlassica in Italia. Ma obbligarlo a questa prospettiva tradisce Boccaccino. La misura anticlassica qui non manca, ma appare come un aggiornamento sui suoi colleghi più giovani appoggiato a quelle ruvidezze nordiche (tra Schongauer per via grafica e Dürer de visu a Venezia) che screziano un produzione riconosciuta dai curatori della mostra Francesco Ceretti e Filippo Piazza come fedele a una linea che salda protoclassicismo emiliano e sperimentazione lagunare.
“Il Rinascimento di Boccaccio Boccaccino”, visitabile fino all’11 gennaio, riunisce sedici della trentina di opere note: il Museo diocesano conserva il più ampio nucleo di dipinti dell’artista, integrato con prestiti dai più importanti musei italiani, da Uffizi a Capodimonte. Le opere conservate all’estero sono pubblicate nel catalogo (Officina Libraria) che, anche grazie a un completo regesto dei documenti, si pone come punto di riferimento per gli studi. Il percorso è organizzato tematicamente, per quanto sia un pittore quasi soltanto di soggetto religioso, e fa emergere la moltitudine delle esperienze che ne fanno un figura che sfugge agli schemi: lo stesso Lanzi, che ne riconosceva le altissime qualità, con la formula «il miglior moderno fra’ gli antichi e il miglior antico fra’ moderni» di fatto lo relegava nel limbo degli indecisi. Uscendo infatti dai localismi delle scuole e dai dogmatismi delle botteghe, Boccaccino – come Giovanni Agostino da Lodi, di cui si attende la mostra finalmente a lui dedicata l’anno prossimo a Brera (una delle confortanti eccezioni) – appare come uno dei migliori interpreti di una sorta di koinè padana che, nel suo caso, integra sulla piattaforma ferrarese di de’ Roberti e Costa un leonardismo mediato da Boltraffio, le asprezze volumetriche di Bramantino, le innovazioni tipologiche di Bellini e quelle tecniche ed espressive di Giorgione, durezze e ligature d’Oltralpe. Senza ignorare, specie sotto il profilo compositivo, Perugino, presente alla Certosa pavese e nella stessa Cremona ma poi visto in una non fortunata parentesi romana tra 1513 e 1514. Tutti questi però sono solo ingredienti di una ricetta sempre personale e precocemente connotata.
L’artista, che per via delle origini paterne si firmava “cremonensis”, era nato a Ferrara tra 1462 e 1466 e lì aveva esordito, lavorando anche per Genova e Milano. Nel 1500 si trasferisce con successo nella difficile Venezia, dove appare il migliore interprete di Giorgione, come nella splendida Zingarella, o nei due inconsueti Evangelisti. Il pittore si attesta a Cremona (territorio della Serenissima) solo dal 1506, per dipingere il catino absidale della cattedrale, dove finalmente fonde tutte le istanze. Vi morirà nel 1525. Un senso di melanconica dolcezza e placida monumentalità sono i suoi tratti distintivi, insieme a una cura amorevole, persino devota, della stesura pittorica – a fronte di una vita violenta e inquieta: mai fidarsi della biografia. Vi resterà fedele per tutta la vita. O quasi. Perché nel frammento sopravvissuto del suo ultimo lavoro, la gigantesca Pala Fodri (1523-1524), recentemente acquisito dal Museo diocesano, con uno scarto inatteso il vecchio Boccaccino fornisce un fulcro su cui farà leva il secolo d’oro della Maniera cremonese, da Giulio Campi in giù.
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