venerdì 3 dicembre 2021
Alla Triennale una retrospettiva sull’autore americano che lavorò anche in Italia e che ridefinì il rapporto fra disegno e critica del proprio tempo. Lo celebrano in contemporanea Parigi e una rivista
Saul Steinberg, “Riverhead. Long Island” (tecnica mista, 1985)

Saul Steinberg, “Riverhead. Long Island” (tecnica mista, 1985) - / Saul Steinberg Foundation

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Mi sono chiesto se valga in questo caso il noto aforisma di Agatha Christie secondo cui «un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Mi trovavo a Parigi verso la fine di settembre e facendo una visita alla retrospettiva di Georgia O’Keeffe al Centre Pompidou ho scoperto che dopo qualche giorno avrebbero inaugurato anche una mostra dedicata a Saul Steinberg intitolata Entre les lignes. Che, si vedrà, potrebbe essere interpretata nello specifico come invito alla “lettura interlineare” tipica del Novecento.

Le origini ebraiche di Steinberg lo costrinsero a fuggire dalla Romania, dov’era nato nel 1914, all’età di 18 anni; arrivato in Italia si laureò al Politecnico di Milano in architettura e cominciò a collaborare coi suoi disegni a vari periodici, tra cui il “Bertoldo” di Giovannino Guareschi, ma con le Leggi razziali dovette lasciare anche il nostro Paese da cui, dopo varie peripezie, approdò nel 1941 in America dove restò definitivamente. Agli inizi di ottobre anche alla Triennale di Milano si è aperta una mostra di Steinberg intitolata A-Z (fino al 13 marzo). Allude, il titolo, a una sorta di dizionario steinberghiano, idea sulla quale è stato concepito il catalogo edito da Electa a cura di Marco Belpoliti (con molti collaboratori). La rassegna presenta oltre trecento pezzi fra disegni, opere pittoriche e plastiche, foto e documenti, che si dipanano con una notevole ampiezza al primo piano della Triennale seguendo l’emiciclo interno e svolgendosi, per così dire, attorno a un gruppo principale di “leporelli architettonici” eseguiti appositamente da Steinberg su strisce di carta lunghe fino a una decina di metri, prototipi che vennero pantografati fotograficamente e incisi “a graffito” sulle pareti ricurve del Labirinto per ragazzi progettato dai BBPR per la X Triennale del 1954. Accanto a queste opere principali, la mostra ne presenta altre donate alla Biblioteca Braidense dalla Saul Steinberg Foundation.

Questo è già il secondo indizio, mentre il primo fu a Parigi: anche questa volta la Fondazione ha donato al Centre Pompidou una importante opera di grandi dimensioni, Art Viewers e altri disegni che testimoniano il legame dell’autore con Parigi. I due indizi hanno infine trovato il terzo, e quindi la prova, nella riedizione ampliata di un numero della rivista “Riga” che celebra Steinberg. Il trait-d’union che lega idealmente i tre indizi è il nome di Belpoliti – ringraziato a Parigi e curatore tanto del catalogo di Milano, quanto della rivista. Si tratta dunque di una vera e propria “Operazione Steinberg” che mira a consolidare la presenza museale di un autore tra i grandi della grafica occidentale, ma tutto sommato noto per lo più a un pubblico raffinato.

Confesso, però, che ho trovato persino bulimico l’approccio italiano per Steinberg in una circostanza dettata non da un anniversario, ma appunto dalla volontà della Fondazione omonima che ha donato opere creando l’occasione per sostenerne anche la presentazione con sfoggio di mezzi. 586 pagine il libro della Triennale, 534 la rivista “Riga”. Oltre mille pagine, e vien da dire che dopo tanta generosità di contributi per un bel po’ il discorso è chiuso, e chissà se l’interessato sarebbe contento (tra l’altro amava poco fare mostre).

A Parigi sono stati più equilibrati con un classico catalogo di 152 pagine, pochi saggi brevi ma puntuali, tante immagini ben leggibili; il catalogo di Milano invece sacrifica un po’ la documentazione visiva alla sovrabbondante riflessione saggistica che, oltre la formula del dizionario, appare una esibizione di snobismo critico (“Riga”, paradossalmente, fornendo un’antologia dei testi più classici da Rosenberg a Gombrich, Barthes e Calvino, e un’ampia sezione di interviste con l’artista, si legge con maggior godimento).

Una foto di Evelyn Hofer, “Saul Steinberg with his hand”, New York 1978

Una foto di Evelyn Hofer, “Saul Steinberg with his hand”, New York 1978 - / Estate of Evelyn Hofer

Steinberg è uno che parla troppo e disegna tanto, anzi di più. Stando a quanto afferma nell’intervista con Pierre Schneider, dovremmo pensare che dietro tanta loquacità si cela un mistico, perché – dice – «i veri mistici sono sempre stati dei chiacchieroni». Dopo aver visto, letto e ascoltato (in Triennale si possono seguire anche interviste filmate) mi sono convinto che parlare di Steinberg artista-disegnatore è anzitutto parlare delle sue idee. Intanto, ecco una sua lapidaria confessione: «Il pensiero che ci sia uno “scopo” in un disegno, mi paralizza». Schneider commenta: «I disegni di Steinberg sono come una miriade di semafori perennemente accesi sul verde: vai avanti tranquillo, e sul più bello ti investono».

Fu lo stesso interessato a spiegare che disegnare era diventato per lui «venire a patti con la vita». E la vita non è tutta armonia, anzi è caotica spesso. Anche per questo ritengo bulimica la scelta di affiancare alla sua opera centinaia di pagine di altri. Lui fa già tutto da solo: parla e disegna, è “scrittore per immagini” che come un nuovo egizio inventa un linguaggio di geroglifici. In realtà, credo che si possa scrivere di Steinberg solo quando lui chiude per un attimo gli occhi, negli spazi interstiziali che ci lascia. E bisogna essere pronti a cogliere l’attimo: mentre si ferma per prendere fiato, ecco in quel momento si può intervenire con una nota a margine; poi riprende, e quando si ferma ancora a riflettere, ecco che tocca a noi con un inciso; infine, quando si assenta dicendo: scusate, vado a fare una doccia per ripulirmi la pelle da tutti i segni che le mie mani hanno disseminato, quello è il momento in cui si può cercare un ordine in quella che Jean-Pierre Criqui nel catalogo parigino definisce «foresta di parole», ovvero un’«abbondanza proteiforme» che non si può afferrare con un semplice sorvolo, perché nella presunta forma aleatoria della sua invenzione tutto, in realtà, è pensato in «una forma pedagogica di esattezza».

Steinberg è leggero, il suo segno è quasi un ricamo rarefatto, un arzigogolo della mente, ma tutto è denso e sedimentato da una psiche che opera sulla carta come un bulino che incide la superficie dello specchio umano. Può darsi che, come ricorda Claudio Franzoni, in Steinberg l’ironia non possa che concludersi in “graphic parodies”, come qualcuno scrisse dei suoi diplomi surreali. Ma se è vero che «i diplomi sono impensabili dentro un cassetto, nascono per essere visti», per Steinberg reinventarli vuol dire trasformarli in ironici strumenti di critica sociale: giocare sulla certificazione pubblica che pretende di collocare un uomo e lo spinge feticisticamente a specchiarsi nel suo pezzo di carta appeso al muro. Steinberg è un artista “politico” perché i suoi disegni graffiano le convenzioni sociali. Come in Art Viewers che, a ben vedere, è una rappresentazione dada-pop di un tipo sociale della modernità: lo spettatore, la cui figura fa la sua apparizione come rappresentazione ottocentesca dell’amatore d’arte (vedi, per esempio, i disegni di Daumier) ed è anche il testimone del nuovo mercato dell’arte, ma finisce tristemente oggi per essere consumatore, anzitutto non della bellezza ma del semplice possesso idolatrico l’opera. Steinberg non ci sta: egli, in un certo senso, si comporta come un rabbino e indaga l’interpretazione del testo. «Gli scultori, fondamentalmente, sono fabbricanti di idoli. Tradurre la carne in pietra è sfidare l’uomo». E ancora: «Non voglio fabbricare della merce. Per questo ero contrario alla pittura e alle mostre»; e se progetta di fare delle sculture ecco che rifiuta l’idolo: «sto pensando di fabbricarle con la carta e di farla fotografare per poi distruggerla. Non c’è motivo di avere un oggetto, un documento è sufficiente».

Da buon ebreo, è contro il vitello d’oro. La sua manna non ha corpo, nutre ma non placa la fame. Dona a tutti la riproduzione del disegno, non l’originale-feticcio. È l’antesignano della cultura fatta di immersioni digitali, perché – come alcuni sostengono oggi – esporre le opere d’arte nei musei è feticistico. In un filmato risponde che «il cattivo gusto è buono. Non mi pongo il problema». Poi continua parlando di un disegno di Klee che è appeso in casa sua: «Già così è un cimelio, ma quasi invisibile è rimasto sul foglio un pelo, un sopracciglio di Klee probabilmente. Allora è ancora più importante, è una reliquia». Qui il rabbino cerca interpretazioni nei libri, ma la trova solo in se stesso. La premessa era già scritta nel 1965 quando, diffidente verso la bellezza, disse: «Cerco sempre di evitare le tentazioni, come il farsi coinvolgere dalla bellezza. Spesso ho modificato un disegno per farlo apparire più rigido. Mi sembra che la bellezza possa sminuire la concezione essenziale di un disegno». Steinberg è il moralista ebraico che, provato dalle terribili vicende del Novecento, non può che distillare la caricatura in critica visiva, pur senza farne anatema.

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