sabato 16 ottobre 2021
Lo scrittore francese oggi al Salone del Libro: «La pandemia ha risvegliato la coscienza della nostra mortalità, rendendo nuova una saggezza molto antica, addirittura primordiale
Lo scrittore francese Mathias Énard

Lo scrittore francese Mathias Énard - Boato

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Prima o poi, finisce sempre che si ritorna a casa. Vale anche per Mathias Énard, uno dei più acclamati e innovativi scrittori contemporanei. Francese, classe 1972, da una ventina risiede a Barcellona, dove insegna letteratura araba all’università. La sua formazione di orientalista gioca un ruolo rilevante in Bussola, il romanzo con il quale nel 2015 ha vinto il premio Goncourt. Adesso Il banchetto annuale della Confraternita dei Becchini (traduzione di Yasmina Melaoulah, e/o, pagine 480, euro 19,00) comporta un deciso cambio di scenario: non più il Medio Oriente assolato, ma i paesaggi brumosi della zona di Niort, a quattrocento chilometri da Parigi e non lontano dal Golfo di Biscaglia. Una regione nella quale d’inverno le temperature scendono bruscamente, specie se in casa il riscaldamento stenta. In compenso, il wifi viaggia che è una meraviglia, a parziale consolazione dei dolori del giovane David, aspirante antropologo che dalla periferia di Parigi si è spinto in campagna per portare a termine la ricerca dalla quale dipendono le sorti della sua carriera accademica. David è appunto il protagonista del Banchetto annuale della Confraternita dei Becchini, che Énard presenta oggi alle 10.30 presso la Sala Azzurra del Lingotto, nell’ambito del Salone internazionale del Libro di Torino. «Ma David non sono io – precisa con gentilezza –. A Niort ci sono nato, è un territorio che conosco da sempre. La mia infanzia è stata molto simile a quella dei personaggi nei quali David si imbatte. Le storie che ascoltavo da bambino, le cronache orali della mia famiglia, sono la materia della quale mi sono servito per il libro».

Resta il fatto che, dopo tanto Oriente, adesso siamo in pieno Occidente.

Siamo in Europa, mi verrebbe da rispondere. Perché l’Europa esiste, in primo luogo, ma non come un soggetto statico e ripiegato su sé stesso. In qualsiasi angolo del continente, basta scavare un po’ sotto la superficie per riscoprire una stratificazione più che millenaria. Gli insediamenti preistorici, i villaggi tribali, le vestigia romane, le rovine del Medioevo… La campagna, a mio avviso, è il luogo ideale per apprezzare questa complessità. In provincia sembra che non accada mai niente e invece è proprio da lì che passa la storia.

Eppure il mondo contadino continua a essere poco rappresentato.

Sì, e questo è un problema anche sul piano politico, oltre che in termini di consapevolezza culturale. Come possiamo facilmente constatare, i populisti sono abilissimi nell’approfittare del pregiudizio secondo il quale la campagna sarebbe una realtà immobile, arcaica o addirittura ancestrale. Vedete, sostiene la propaganda sovranista, questa è la vera nazione, questa è la nostra identità. Un’identificazione del genere poteva essere plausibile fino al XIX secolo, ma riproporla oggi significa non tenere conto delle profonde trasformazioni intervenute negli ultimi duecento anni. La meccanizzazione delle colture, la diffusione del sistema scolastico, la penetrazione capillare dei media sono alcuni dei fattori che hanno drasticamente ridotto le differenze tra periferia e centro, creando una sostanziale continuità di mentalità e di comportamenti. Molti, per esempio, scelgono di vivere in campagna pur continuando a lavorare in città e così si ritrovano a essere nello stesso tempo cittadini e campagnoli.

Nel suo romanzo opera in maniera riconoscibile l’omaggio a François Rabelais: come mai?

Gargantua e Pantragruel è un classico riconosciuto e tuttavia è come se fosse sempre tenuto a distanza. Nel canone della letteratura francese è percepito come un’eccezione, non come un modello. Questo accade perché la nostra idea di romanzo è improntata sulla tradizione ottocentesca. La forma del racconto, ai nostri occhi, rimane quella fissata da Stendhal, da Balzac, da Flaubert, da Zola. La letteratura, però, non è avulsa dalla storia. Meglio ancora, ha una storia e questa storia risale molto indietro nel tempo, molto più di quanto solitamente si immagini. Rabelais, in particolare, ci riporta alla formidabile stagione del romanzo rinascimentale, caratterizzata da un’estrema libertà sia nelle strutture narrative sia nella versatilità della lingua. In ogni pagina di Rabelais convivono fe- licemente prosa e poesia, citazioni latine e voci dialettali, raffinatezze filosofiche e canzonature grossolane. È l’aspetto sovversivo della provincia, la strategia con la quale la periferia prende d’assalto il centro, fino a spodestarlo.

Lei sta descrivendo il menu del famoso banchetto che occupa il cuore del suo libro.

Una poderosa scorpacciata durante la quale ci si scambiano battute e si rievocano gli episodi cruciali di un’epopea popolana, travolgente nella sua inverosimiglianza. Dal punto di vista letterario siamo dalle parti di Rabelais, di Villon e anche di Agrippa d’Aubigny, il poetasoldato che partecipa ai conflitti del XVI secolo militando con i protestanti. Al banchetto tutto è permesso, tranne che parlare della morte.

Non è strano, visto che i commensali sono becchini?

Al contrario, proprio perché la vitalità è tanto esibita diventa evidente che la morte è l’ospite principale del banchetto. Vede, l’edizione originale di questo romanzo risale al 2015, molto prima della pandemia. La mia convinzione è che, almeno da questo punto di vista, con il coronavirus qualcosa sia davvero cambiato.

Parla da ricercatore come David?

Parlo come David dopo che si è reso conto che la campagna non è solamente un oggetto di studio. Ciascuno di noi, dentro di sé, sa benissimo di essere una creatura mortale, ma il più delle volte questa rimane una nozione astratta, che quasi non arriva a turbarci. Anche per me, in fondo, era così. Poi mi sono ammalato di Covid-19 e d’improvviso la morte mi è apparsa come un’eventualità concreta e minacciosa. Ma mi pare che anche chi non è stato contagiato abbia vissuto una sensazione simile, se non altro nelle prime fasi dell’emergenza, quando il numero delle vittime continuava a salire. Era il segno che potevamo morire tutti, senza che ci fosse altro da fare. Non è andata in questo modo, fortunatamente. In ogni caso, però la pandemia ha risvegliato la coscienza della nostra mortalità, rendendo nuova una saggezza molto antica, addirittura primordiale.

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