martedì 15 novembre 2016
L’esperto di ecumenismo padre James Puglisi: «Uno dei nodi principali resta il reciproco riconoscimento dei ministri ordinati. Ma le incomprensioni di cinque secoli oggi possono essere superate»
Karl Aspelin, "Lutero brucia la bolla di Leone X" (Wikicommons)

Karl Aspelin, "Lutero brucia la bolla di Leone X" (Wikicommons)

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Per padre James Puglisi l’ecumenismo è, alla lettera, una questione di famiglia. «Mia nonna era nata anglicana – ricorda il religioso originario della cittadina di Amsterdam, nello Stato di New York – e solo in seguito divenne cattolica». Proprio come è accaduto all’altra famiglia, religiosa, di cui padre Puglisi fa parte: i francescani dell’Atonement, ossia delle redenzione. Il nome, ispirato a un brano della Lettera ai Romani, fu scelto alla fine dell’Ottocento dal pastore episcopaliano statunitense Lewis Wattson, iniziatore dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Poco tempo più tardi, nel 1909, Wattson passò al cattolicesimo e la congregazione da lui fondata fu ammessa alla piena comunione con la Chiesa di Roma. Attualmente i francescani dell’Atonement animano il centro Pro Unione di Roma (www.prounione.urbe.it), attivissimo nelle promozione del dialogo ecumenico. Padre Puglisi, che lo dirige, è considerato un’autorità in materia: a lui si deve, tra l’altro, la cura dell’Enchiridion Oecumenicum pubblicato in numerosi volumi fin dalla metà degli anni Ottanta. «Il quinto centenario della Riforma – dice – può segnare una tappa importante, se non altro per il riconoscimento dei progressi compiuti negli ultimi decenni».

In quale direzione: pastorale o teologica?

«Mi pare indubbio che sul piano dottrinale si sia ormai superato ogni equivoco tra cattolici e luterani. E questo già dal 1999, dalla firma della Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, grazie alla quale siamo arrivati a una nuova comprensione degli elementi che ci avevano diviso in passato. I cattolici riconoscono che i luterani non sono più soggetti all’anatema del Concilio di Trento e, nello stesso tempo, i luterani ammettono che i cattolici non sono più estranei alla giusta comprensione del mistero centrale della fede in Cristo. Quanto sta accadendo in questi mesi, compreso lo storico viaggio di papa Francesco in Svezia, si pone nel segno di questa continuità».

Quali potrebbero essere i prossimi passi?

«Mi rifaccio a un documento che si intitola appunto On the way, “In cammino”, sottoscritto di recente negli Stati Uniti da cattolici e luterani. Lì sono indicati tre aspetti particolarmente rilevanti per il dialogo: la Chiesa, l’Eucaristia, il ministero. Per ciascuno di questi ambiti vengono valutati gli elementi di accordo e di disaccordo. Sull’Eucaristia le differenze sono ridotte al minimo, dato che anche i luterani concordano sulla vera presenza di Cristo, per la quale pure forniscono una spiegazione alternativa rispetto a quella in uso nella teologia cattolica. Più complessa è la questione della Chiesa, nella quale i luterani sono ancora restii a riconoscere uno strumento per l’opera di salvezza. Ma il vero punto critico, alla fine, è costituito dal riconoscimento reciproco del ministero. Fino a quando non verrà superato questo ostacolo, l’unità non potrà dirsi raggiunta».

Si riferisce all’ordinazione delle donne?

«Nel mondo luterano le donne ordinate sono molto numerose, ma la Chiesa cattolica non contempla questa possibilità: come pensare, allora, di arrivare a un’effettiva reciprocità? Sono convinto che nei prossimi anni la teologia cattolica dovrà molto riflettere su questo snodo, considerando con grande serietà le obiezioni che vengono da parte protestante».

Quali?

«Il fatto che nulla, nel Nuovo Testamento, esclude espressamente il sacerdozio femminile. Gli apostoli erano tutti uomini, si ripete. Ma se è per questo erano anche ebrei, circostanza che non ha impedito l’ingresso dei gentili nella Chiesa. La riflessione, a questo punto, deve andare in un’altra direzione, approfondendo la dimensione del sacerdozio comune dei fedeli. Il legame, insomma, non è tra sacerdozio e ordinazione, ma tra Battesimo e sacerdozio».

Non sarà un percorso facile.

«Più che altro non può essere un percorso imposto dall’alto, come si tentò a fare nel Quattrocento con il fallimentare Concilio di Ferrara e Firenze che mirava a ricomporre lo scisma d’Oriente. Il dialogo ecumenico, al contrario, ottiene i risultati migliori quando si configura come un movimento dal basso. Ecco perché bisognerebbe insistere sulla formazione dei ministri nelle varie Chiese. L’ecumenismo non può essere considerata soltanto una materia di studio da affiancare alle altre, ma deve diventare anche una visione trasversale, capace di informare di sé tutta l’azione pastorale. Del resto, è l’azione che ci unisce, prima ancora della dottrina. Mi pare che sia questo, da ultimo, il significato più profondo dell’ecumenismo praticato da papa Francesco, nella cui riflessione è centrale il riconoscimento del comune Battesimo ricevuto dai cristiani».

Ma lo scisma di mezzo millennio fa poteva essere evitato?

«La mia impressione è che alla base della rottura ci sia stata una forte incomprensione linguistica. La forma mentis di Lutero era di tipo settentrionale, direi quasi anglosassone, ma si esprimeva attraverso le formule della Scolastica latina, finendo così per irrigidirsi ancora di più. Ogni lingua ha in sé la sua logica, infatti, e la transizione da un contesto all’altro non avviene in modo indolore. Nella fattispecie, Lutero non ha mai rinunciato al procedimento binario della reciproca esclusione. Per lui l’Eucaristia, per esempio, non può essere nello stesso tempo sacrificio e rendimento di grazie, perché una definizione viene a contraddire l’altra e questo impedisce di raggiungere la sintesi del sacrificium laudis. Questo, peraltro, vale anche per la posizione assunta da Lutero sull’ordinazione. Per strano che possa apparire, fu proprio l’eredità della Scolastica a rendere impossibile la riconciliazione nei primi anni della Riforma. Adesso spetta a noi trovare un linguaggio e un pensiero veramente innovativi».

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