domenica 10 luglio 2016
Autore e produttore originale anticipò la nascita della musica italiana moderna. La figlia: «Ma oggi in pochi lo ricordano».
Natalino Otto, pioniere dello swing
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Trentuno gennaio 1958, Sanremo. La nascita della canzone italiana moderna, svincolata dalle retoriche da melodramma, per solito è datata a quella sera: quando Domenico Modugno, spalancando le braccia, intonò il refrain di rentuno gennaio 1958, Sanremo. La nascita della canzone italiana moderna, svincolata dalle retoriche da melodramma, per solito è datata a quella sera: quando Domenico Modugno, spalancando le braccia, intonò il refrain di Nel blu dipinto di blu. In realtà, al netto di mamme e scarponi, la canzone italiana nel ’58 già conosceva lo swing, i colori della musica afroamericana e testi capaci di giocare in modo non banale con le parole: fra cultura, ironia e impegno. E queste faccende le conosceva grazie alle idee e alle incisioni di veri pionieri della canzone come la conosciamo ora: meno “nazionalpopolari” della regina Nilla Pizzi e del reuccio Claudio Villa, di alto profilo artistico ma “conservatori”, e comunque ben noti fra radio, tv e 78 giri. I loro nomi? Gorni Kramer, Alberto Rabagliati, Quartetto Cetra, Natalino Otto. E quest’ultimo, nato Natale Codognotto nel dicembre 1912 a Cogoleto vicino Genova, si può dire sia stato il Pioniere con la maiuscola, autore e interprete insieme di una musica italiana veramente nuova, ma per nulla scimmiottante mode estere. La sua prima incisione nel ’40, Biriei, citava persino un da noi poco noto Glenn Miller (Pennsillvanya 6-5-000) e sfoggiava un magistrale cantato “scat”; nel tempo egli stesso è stato citato dagli artisti più disparati: Articolo 31, Stefano Bollani, Arbore. La sua Lungo il viale è finita tra le pagine di Fenoglio e ancora sono note Ho un sassolino nelle scarpe, La scuola del ritmo, La classe degli asini, Mister Paganini. Punte di un canzoniere ricchissimo fra jazz, swing, entertainment e primi fuochi di cantautorato o (con eleganza) musica demenziale. Natalino Otto si è spento a Milano il 4 ottobre ’69, a neanche 57 anni: oggi, senza l’appassionato lavoro della figlia che sulla sua figura ha realizzato Vendo ritmo, libro, doppio cd e dvd, ne sapremmo troppo poco. Eppure senza di lui la nostra canzone non sarebbe mai cresciuta: come testimonia Silvia Codognotto Sandon, doppia figlia d’arte perché nata dall’unione di Otto con Flo Sandon’s (la “s” fu un errore di stampa poi elevato a nome d’arte…), primo disco d’oro italiano nel ’52 con Non dimenticar (che t’ho voluto bene). Lei data l’esordio “vero” di Natalino a Viareggio nel ’37, al di là della gavetta. Quasi ottant’anni… «E fu un’ascesa rapida: nel gennaio ’40 prese il nome d’arte firmando per la Fonit, in un anno era noto.Vorrei sfatare la leggenda delle vessazioni subite dal fascismo: solo, la musica americana non passava all’Eiar. Eravamo in guerra con gli americani». Suo padre capì di aver battezzato una nuova canzone? «Credo di sì, ma non subito. Lo metabolizzò penso attorno agli anni Cinquanta, prima di ritirarsi giovane nel ’62 perché riteneva di aver detto tutto. E anche perché la Rai di Bernabei, quella sì, aveva ghettizzato lui, la Pizzi, Villa, anche i Cetra che pure lavoravano di più. Venivano vissuti, diceva, come delle cariatidi. Eppure erano cinquantenni di esperienza e valore, perfetti per molto pubblico». Lei ha avuto difficoltà a realizzare Vendo ritmo? «Ci ho messo molto tempo, e inizialmente era venduto solo via web. Però ora è anche in libreria». Cosa intendeva Otto per «finta libertà dell’artista»? «Parto dal fatto, molto italiano, per cui chi fa arte da noi si dice non abbia un vero lavoro. Una delle conseguenze, oltre alla perdita della memoria storica e dunque di un’identità culturale, è che la sua anima può essere libera, ma le azioni no. Non essendo valutato come merita, deve rispondere a casa discografica, agenti, manager: dipendere da altri nelle scelte anche più strettamente artistiche. Pure ora, succede: in musica come nel cinema, per dire». Franco Cerri debuttò con Otto in rivista: da lui ha detto che imparò «l’educazione». Pagò essere perbene? «Certo che no… Anche se più che di educazione, allora nessuno ne era privo, direi etica. Per difendere i propri principi, papà rinunciava a qualsiasi cosa». Come essere l’editore italiano dei Beatles? «Aveva fondato le edizioni Bolero nel ’50. Da imprenditore aveva capito il valore del gruppo e ne aveva intuito un ritorno non gestibile dalla sua azienda. Ed era il 1960, due anni prima dell’esordio ufficiale della band con Love me do! Dunque li passò alla più grande Curci». Proprio nel ’60 suo padre fondò anche l’etichetta Telerecord. Puntò sul jazz, ma avrebbe potuto essere pioniere di un’altra rivoluzione musicale... «Sì: fu molto pesante, per lui, la morte di Fred Buscaglione. Se ne andò poco prima della nascita dell’etichetta e rimase il suo treno mancato, sono convinta che avrebbero fatto qualcosa insieme. Perché soprattutto erano amici: papà ne stimava l’ironia, la fragilità, l’amore per la musica vera». A quale stile dei tanti frequentati teneva di più? «A parte il jazz, era un melomane. Un vero crooner, voce impostata su swing e melodia. Ma adorava anche i Led Zeppelin: ascoltava e riascoltava l’assolo di batteria di Moby Dick (Otto agli esordi fu batterista sui transatlantici, ndr). Gli sarebbe piaciuto incontrare la band da collega». C’era una sua canzone che riteneva più importante? «Nel cuore aveva la prima, Biriei. Poi No jazz, e citerei anche la melodica Sapevi di mentire del 1950: le ha donato un’interpretazione molto sentita».  Sandro Ciotti ha detto che Natalino Otto era persona e non personaggio. È questa l’eredità principale di suo padre che gli artisti dovrebbero ricordare?  «Penso di sì. Cercava essenzialità, autenticità, non amava la superficie. Forse aveva già intuito quanto sarebbe andata in crisi la nostra cultura, quando scelse di rimanere persona e fermarsi ad ascoltare e capire, invece che sgomitare». 
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