lunedì 11 giugno 2012
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Seduto per terra davanti al suo ufficio, l’imprenditore risponde al telefono e rassicura il cliente che chiama da San Pietroburgo: «Siamo in strada a impacchettare la merce, domani spediamo il tutto». Scena irreale, fino a tre settimane fa. Ma ora l’ufficio di Marco Bianchini, proprietario insieme al padre e al fratello della Runner, florida impresa di attrezzature per la riabilitazione negli ospedali, è un vecchio camper messo in cortile, a distanza di sicurezza dal grande capannone ferito. Ferito mortalmente dalla scossa del 29 maggio, quella delle 9 del mattino, che a venti metri da qui ha fatto morti e feriti. E la strada è l’unico settore in cui i dodici operai possono ancora lavorare per qualche giorno, poi buio assoluto, perché le ultime macchine sono costruite e, spedite queste, i clienti resteranno all’asciutto, anzi, peggio, si rivolgeranno alla concorrenza, magari straniera. La Runner, come le tante altre imprese messe in ginocchio dal sisma, è una delle gocce che insieme formano un mare, quell’1% del Pil prodotto proprio dall’Emilia Romagna e oggi a rischio chiusura definitiva.La diagnosi infausta è appena arrivata: «Un’ora fa sono finalmente arrivati gli ingegneri strutturali – racconta il giovane imprenditore –, gli unici che hanno voce in capitolo, e hanno dichiarato che il mio capannone è un malato grave. Hanno detto proprio così. Impossibile restaurarlo, occorre abbatterlo e ricostruirlo. Per noi in dieci secondi è sparito tutto il lavoro di 40 anni. Quella mattina siamo corsi fuori appena in tempo, ma l’asfalto ballava tanto forte che non si riusciva a stare in piedi, un mio operaio è caduto e si è ferito». Era il 1973 quando suo padre, 61 anni, ha investito tutto lì per il futuro dei suoi figli. Oggi è invecchiato di colpo. Pensare che a un solo chilometro dalla Runner, c’è quello che sembrava un rudere di metallo, tanto che tutti da anni si chiedevano che cosa aspettasse il proprietario a buttarlo giù, ma dal giorno del terremoto è il brutto anatroccolo rimasto in piedi tra tanti bellissimi cigni dai piedi d’argilla: «I due capannoni in ferro hanno incredibilmente resistito, i nostri, belli, nuovi, eleganti, in cemento armato, giù come castelli di carte».È un terremoto anomalo, questo d’Emilia, diverso dagli altri: al primo sguardo non vedi intere cittadine abbattute, la gran parte delle case e persino i capannoni appaiono intatti, ma la malattia è insidiosa, lavora dentro, nella Runner come altrove. Una sottile fessura corre tra le mura e il tetto, pronto a sprofondare alla prossima lieve scossa, «Guardi qui – mostra Bianchini sconsolato –, le colonne in cemento armato si sono “scollate”, quelle dentro sono esplose. A nostre spese abbiamo tirato giù 1.200 quintali di pannelli in cemento dalle mura esterne, per alleggerirle, perché amiamo questa azienda come un figlio e faremmo di tutto per salvarla, ma ora ci dicono che è stato inutile. I contributi, poi, ce li daranno solo se ricostruiamo qui dove siamo, ma quanti? E quando? E intanto che facciamo?». Il colmo è che in tempi di crisi qui il lavoro c’è, ci sarebbe, le richieste dei clienti incombono, ma paradossalmente bisogna rifiutare: «Finora abbiamo retto, ci siamo anche aiutati, ci sono casi di imprese sane che hanno aperto i loro capannoni alla concorrenza perché potesse continuare a lavorare, ma con la notizia che questa mattina ci hanno dato gli ingegneri non c’è più nemmeno questa possibilità».Il capannone di metallo che ha retto, ad esempio, è stato offerto per solidarietà a un’altra impresa di carpenteria metalmeccanica con 60 dipendenti, ma ora il futuro è un’incognita anche per loro. «La cosa assurda è che hanno retto le case di 40 anni fa e non le strutture come la mia, che ne ha solo 15. Non do la colpa a nessuno, allora l’Emilia non era considerata zona sismica, ma l’appello ora è che ci aiutino a trovare un altro capannone altrove, se no restiamo tutti per la strada». I piccoli grandi segnali di umanità sono tanti e aiutano a sperare, come quel camper che proprio ieri uno sconosciuto alpino di Torino gli ha portato, «600 chilometri di strada e manco ha voluto i soldi della benzina». Ma la notte si dorme nei furgoni, le scosse sono continue e la paura ferma il respiro, «non ti riaddormenti più, siamo tutti stanchissimi». Da qualche giorno sua moglie, che aspetta un bimbo, la moglie e la bambina di suo fratello e l’anziana madre sono andate a stare in un hotel a Ravenna, ma poi la terra ha tremato anche lì.Cavezzo, come tutti i paesi toccati dal sisma, è un grande accampamento a cielo aperto, non tanto per la spianata di tende della Protezione civile, «dove per il 90% ci sono extracomunitari usciti dalle case popolari», ma perché ogni casa, villetta, condominio in giardino ha le sue tende, le roulotte, i camper. Un’immagine surreale, che solo la paura della casa può spiegare. Si fa una doccia nel più breve tempo possibile, e poi si corre al sicuro, all’esterno. Altra caratteristica comune a tutte le zone terremotate: nei bar, nelle case, nei negozi, nei capannoni, ovunque le porte sono spalancate, «abbiamo bisogno di sapere che possiamo immediatamente essere fuori...», spiega Bianchini.Ora è primavera e fa caldo. Ma i mesi passeranno e l’inverno, con tutta la solidarietà che si vuole, non farà sconti a nessuno.
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