venerdì 21 giugno 2013
I volontari: aiutarle a dimenticare l’orrore. E sull’isola arrivano le storie di chi è transitato dalla Libia. Di giovani finiti nelle carceri dove non esiste separazione tra adulti e minori e le violenze continuano nel buio e nel silenzio.
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Sono 119 e il più piccolo ha sette mesi. La madre viene da un Paese del Corno d’Africa, del padre non si sa nulla, ma si sospetta qualcosa. Anche per loro, che da qualche giorno sono sistemati, in condizioni inadeguate a causa del sovraffollamento, nel Centro di prima accoglienza di Lampedusa, l’altro ieri è stata la «Giornata internazionale del rifugiato». Profughi, emigranti del mare, rifugiati in cerca di tutela e garanzie di libertà, soprattutto di salvezza che per loro vuol dire una vita nuova. Più sicura.Tante storie, diverse per provenienza, ma tutte, comunque, legate fra loro da un unico «filo d’Arianna» che fa rabbrividire e che si dipana lungo una buia e impervia strada fatta di violenze subite e patite e di incubi, viaggi che durano anni, che neppure con una seconda vita si potranno mai cancellare. Come probabilmente è stata costretta a vivere su di se la donna che allatta il suo maschietto di sette mesi, dai tratti somatici troppo diversi, più mediterranei.Dall’1 gennaio di quest’anno, poco meno di 8000 migranti sono approdati sulle coste italiane, dalla Puglia alla Sicilia, 1140 minori, di cui 985 non accompagnati, soli. Come i 119 che in questi giorni sono «naufragati» a Lampedusa, per lo più sono eritrei e somali.Ognuno di noi porta con se quel suo personale libro di momenti e memorie, come fosse un album che raccoglie le più belle fotografie della vita. Un cammino che ci appartiene, per sempre.Poi qualcosa accade: la nostra personale pellicola cinematografica si spezza a metà di quel sentiero e la storia che prima narrava di un bel film adesso cambia bruscamente e diventa incubo. E quell’album di memorie andrà a raccogliere i segreti del terrore vissuto sulla propria pelle: i vestiti strappati da mani odiose, gli abusi e le violenze orrende subite, le frustate sulla schiena e i calci nella pancia, l’umiliazione, la schiavitù, il carcere a patire ulteriori violenze, le lacrime per gli amici che non sono riusciti a stare in piedi e la cui vita è stata spezzata prima di quell’ultimo gradino che avrebbe permesso loro di superare il tunnel di fatica sulla pista che moltissimi esseri umani si trovano costretti a percorrere per agguantare uno scoglio su cui sta scritta la frase: «Rifugiato, sei arrivato».Sono da romanzo dell’orrore, i racconti che emergono nelle testimonianze raccolte dagli operatori di «Save the Children Italia» presenti a Lampedusa per garantire la prima assistenza ai minori in cerca di protezione. Un progetto del Ministero dell’interno, con la collaborazione di «Unhcr», «Oim», e «Croce rossa».Viviana Valastro, coordinatrice del team di «Save the Children», da qualche giorno sta pensando alla vicenda di una ragazzina eritrea di 16 anni che a Lampedusa che è arrivata con «la mia bambina che ha tre anni».«Abbiamo voluto approfondire il caso, con appropriati colloqui, perché c’era qualcosa che non quadrava: lei molto giovane e quel bambino – racconta la Valastro –. Infatti l’adolescente ha raccontato di avere subito violenza sessuale. Sappiamo che il 90 per cento delle donne sono vittime di violenze sessuali, anche se temiamo che la percentuale in realtà sia il cento per cento. Così come sappiamo che per passare da questa parte del mondo bisogna pagare qualcuno, è chiaro che le donne sono vittime due volte. Molti dei bambini che portano con loro sono il frutto di queste violenze. Lo capiamo subito, quando osservandole al loro arrivo, sui loro volti notiamo uno sguardo assente, che non è quello di una madre felice».La terra dell’oblio è la Libia. Il transito è un inferno anche per gli uomini. Sopratutto per i giovani che finiscono nelle carceri dove non esiste separazione tra adulti e minori, le violenze continuano nel buio e nel silenzio.Non è facile fare da catalizzatore di queste testimonianze che grondano tragedie che non riusciamo neppure ad immaginare.«Dobbiamo farlo per questi giovani soli. Ogni loro racconto aumenta le nostre motivazioni – conclude Viviana Valastro –. Fare di più e meglio, per strapparli da sofferenza e solitudine».
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