domenica 12 agosto 2012
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​Venticinque medaglie, un dopato, litri di lacrime e mille dubbi. Questa sera si chiude una delle Olimpiadi più strane (per noi), esaltanti (per molti altri) e intelligenti della storia. Londra spegne la fiamma e si prepara – letteralmente – a impacchettare tutto. Smonterà una mezza dozzina di quelli che ci sono sembrati stadi, ripiegherà le impalcature che sono servite a fare da tribune, ridimensionerà quello che non può radere al suolo nell’intenzione di restituirlo ai londinesi, senza lasciare cattedrali nel deserto e monumenti allo spreco. Splendido esempio rivoluzionario di come si progetta un’Olimpiade al tempo della crisi. Ma la lezione che ci lasciano i Giochi inglesi è fatta di molto altro.Efficienza, entusiasmo, ordine, rispetto delle cose proprie e di quelle altrui. Un tesoro sul quale sarebbe il caso di meditare, invece di arrovellarsi troppo per capire se il conto delle nostre medaglie torna oppure no. Ma il bilancio dei podi va fatto, soprattutto per capire cosa c’è sotto. E cosa ci sarà dopo. L’incasso finale è quasi simile a quello di Pechino 2008, manca qualcosa in termini numerici e molto in quelli sostanziali. Perché le medaglie sono come le azioni in Borsa che, diceva l’Avvocato Agnelli, non si contano ma si pesano. Sulla nostra bilancia ci sono solo (o quasi) archi, pugni e moschetti. Abbastanza per capire che l’Italia che è andata sul podio non è l’Italia vera. Quella che tra mille sacrifici continua a portare i figli in piscina, li accompagna a fare calcio, danza, basket o pallavolo. Senza illudersi che tornino a casa con una medaglia, ma pensando che muoversi sia l’unica vittoria. Le medaglie di Londra invece ci assomigliano solo per l’alto tasso di improvvisazione e di estro personale che le accompagnano. Ma sono allori di nicchia, schegge preziose e fortunatamente impazzite di un sistema che vincente non lo è più. Che affoga in piscina, che nel basket è cronicamente non pervenuto, che non esiste in atletica, disciplina basale e informante per ogni movimento sportivo. E soprattutto è un sistema – scandalo assimilabile a quello di un caso di doping, ma che è stato troppo superficialmente accantonato – che non ha avuto la forza di portare ai Giochi il suo calcio, prima religione pagana del Paese.Per questo restare ancora e nonostante tutto tra le 10 potenze mondiali dello sport alla fine potrebbe anche non essere un bene. Perché regala alibi. Facendo dimenticare ad esempio che tutte le medaglie (tranne quella della pallanuoto) arrivano da atleti che fanno sport solo grazie ai gruppi militari a cui appartengono. E che dietro al tramonto dorato e fatale della Vezzali e della Idem non abbiamo pezzi di ricambio, anche se stiamo cercando faticosamente di costruirceli con i "nuovi" italiani. La generazione Balotelli, da sola, però non può bastare. E in ogni caso l’integrazione è un palliativo. Può essere una soluzione solo se funziona il sistema. C’è molto da fare, e questi Giochi l’hanno confermato. Con la forza delle idee e dell’impegno, più che con i soldi che non ci sono. Lo sanno bene i due rivali per la prossima presidenza del Coni, Lello Pagnozzi e Giovanni Malagò. Aspettiamo i programmi perché ci attendono anni duri, e i 490 milioni all’anno di finanziamento (automatico) dello Stato sono ormai un ricordo. Il Coni sinora ha fatto ottime cose: Petrucci è stato bravo, scaltro e fortunato nella sua atavica reggenza. Ha avviato la politica dello sport nelle scuole, ma i risultati sono avvilenti. Ora lascerà la poltrona pur avendo volto e spirito da ragazzino. Il problema, anche qui, sta sotto. Perché lo sport italiano resta nella ragnatela delle 45 federazioni affiliate: altre "province" che probabilmente andrebbero sfrondate. Otto di queste hanno presidenti ultrasettantenni, solo quattro reggenti hanno meno di 50 anni. Una – che a Londra ha centrato solo un bronzo – è governata da 31 anni dalla stessa persona. Questo sì un record mondiale. Lo sport dei giovani e per i giovani ha bisogno di slanci freschi, di nuovo impegno, di privatizzare i muscoli se serve, di far capire quale patrimonio rappresenti. Se non altro perché, pur avendo qualche mela marcia che bara, resta la cosa migliore di questo Paese. Quella dove c’è più sentimento, dove chi corre, mira, rema o salta, vuole sempre fortemente qualcosa. L’Italia che suda e continua a sperare.
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