giovedì 19 dicembre 2013
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Erano in molti a credere che la nascita della Repubblica Sudsudanese, sancita ufficialmente il 9 luglio del 2011 a seguito di una consultazione referendaria, rappresentasse una tappa fondamentale nel processo di riconciliazione tra Nord e Sud Sudan. In particolare, questo evento fu visto come un segnale forte di stabilizzazione in uno degli scacchieri africani ad alto tasso di conflittualità. Ma, nonostante gli altisonanti proclami delle cancellerie di mezzo mondo, il 54° Stato africano non venne alla luce sotto i migliori auspici. Per quanto la pressione internazionale fosse altissima sia sul governo di Khartum sia sugli ex ribelli dell’Esercito di Liberazione Popolare del Sudan (Spla) affinché si concretizzasse un accordo finalizzato all’autodeterminazione delle regioni meridionali del Paese, fu, per così dire, sovrastimata la capacità di guidare un Paese da parte della nuova classe dirigente del Sud. Si trattava, d’altronde, di creare, partendo praticamente da zero, un sistema statuale, sia in termini politico-amministrativi sia economici e infrastrutturali. Con il rischio sempre presente di una spaccatura etnica, il vero collante del Paese era e rimane – anche se traballante dopo il tentativo di golpe di questi giorni – quello degli ex ribelli che per sei anni, durante la fase di transizione prevista dagli accordi di Nairobi del 2005, hanno amministrato le regioni meridionali attraverso il braccio politico del loro movimento, lo Mpla. Quest’ultimo si è trovato a governare senza che fossero ancora definite, una volta per tutte, le regole del gioco: non solo la delicatissima questione della gestione dei proventi dell’oro nero, ma anche e soprattutto la controversia per la delimitazione dei confini col regime nordsudanese. In sostanza, il presidente Salva Kiir, la cui poltrona è sempre più traballante dopo i sanguinosi avvenimenti di questi giorni, si è trovato a fare i conti con interlocutori che, sia a livello nazionale sia internazionale, guardavano unicamente ai propri interessi. La scelta della pace, si sapeva in partenza, era certamente la via più difficile, ma l’unica che potesse garantire prosperità e stabilità a una popolazione multietnica e multireligiosa, stremata dai lunghi anni di guerra civile con il Nord. Ed è per questo motivo che tutti dovrebbero compiere un sano esame di coscienza. Anche cinesi e americani, che da quelle parti hanno ostentato, in riferimento al business degli idrocarburi, un’etica prevalentemente utilitaristica. Perciò risulta altamente fuorviante pensare che la crisi sudsudanese sia da attribuire esclusivamente all’ancestrale riottosità tra le piccole e grandi etnie: tra Dinka e Nuer, tra Shilluk e Toposa… Dietro le quinte vi sono i soliti istigatori che, paradossalmente, indebolendo lo stato di diritto a Juba, stanno facendo il gioco del nemico di sempre, il governo di Khartum. Fautore della sharia, il regime islamico ha sempre visto gli ex ribelli sudisti come il fumo negli occhi. La comunità internazionale non può quindi permettersi di stare alla finestra. Tanti anni di difficile negoziato tra Nord e Sud non possono venire sprecati dall’ingordigia di chi guarda solo al dato economico. Come ripeteva monsignor Cesare Mazzolari, compianto vescovo di Rumbek, «il futuro del Sud Sudan si costruisce investendo sulla formazione delle coscienze, prim’ancora che sugli impianti petroliferi».
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