giovedì 3 gennaio 2013
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La Borsa italiana ha registrato ieri, alla riapertura delle contrattazioni dopo la pausa festiva, un balzo all’insù di quasi il 4 per cento.
In assoluto, meglio rispetto a tutti i mercati azionali e mondiali, dall’Asia all’Europa all’America. Fuoco di paglia, magari favorito dall’accordo raggiunto in extremis in Usa sulle manovre per il risanamento del bilancio, o qualcosa in più? Facile obiettare che una rondine non fa primavera; tuttavia agli osservatori non è sfuggito un fattore che possiamo definire «di tendenza».
Dalla metà di dicembre, a partire dalle dimissioni annunciate dal governo di Mario Monti e la prospettiva di elezioni a fine febbraio, gli indici del mercato azionario avevano mutato faccia: dalla depressione ad una sempre più netta volontà di ripresa.
Assieme alla Spagna, eravamo divenuti fanalini di coda, a confronto di Wall Street, della City, Tokyo e Shanghai. Dapprima lentamente, poi accelerando, si è delineato il recupero. Sebbene gli indici di Piazza Affari ammoniscano su quanto permane ancora lunga la strada della risalita dopo i ribassi che hanno mediamente decurtato le quotazioni di due terzi, ancor peggio per le aziende bancarie e finanziarie, davvero si scorge una luce in fondo al tunnel recessivo, iniziato cinque anni fa. Illusione ottica o speranza ragionevolmente motivata?
L’interrogativo, diciamo con franchezza, non è sciolto. C’è tuttavia un fatto incontrovertibile che ci coinvolge sia da lontano che da vicino. Sullo scacchiere internazionale, i coraggiosi interventi di Mario Draghi che ha messo a disposizione degli Stati in difficoltà i miliardi della Bce, sbaragliando la speculazione, hanno impedito la deflagrazione dell’euro. L’avere saputo moderare le pretese egemoniche della Germania, sintonizzare le politiche monetarie della Federal Reserve, della Banca del Giappone, della Cina, è stato un capolavoro di ingegneria finanziaria. Senza dimenticare l’azione di contenimento dei tassi di interesse, altrimenti destinati a strangolare le nazioni deboli. Reso il giusto merito a Mario Draghi, parliamo di un «altro Mario», che ci tocca da vicino. Mario Monti. Allorché impreviste «non imprevedibili», convulsioni partitiche ne provocarono le dimissioni da premier, notevole fu lo sconcerto. Si auspicava potesse e dovesse lavorare fino a primavera, data fissata per le elezioni. Perché anticipare i termini, impedendo che il senatore-professore portasse a conclusione la faticosa opera di risanamento di un’azienda Italia che continuava a navigare in acque agitate? Ci si stupì della determinazione con la quale Monti prese atto, con serenità, del venir meno della maggioranza di sostegno.
In realtà, il professore arrivato dalla Bocconi a Palazzo Chigi, sapeva che buona parte del lavoro di risanamento l’aveva portata a termine. Quindi rifiutando di finire nel cul-de-sac di una melina parlamentare. Tagliò insomma il nodo alla maniera gordiana, convinto che grazie all’operato del suo governo, attraverso una politica di sacrifici, l’Italia poteva accogliere l’onda della ripresa che pare ormai lambire tante spiagge dell’economia planetaria.
Vuoto politico-parlamentare ed elezioni alle porte, costituivano un rischio di prima grandezza. Specie se Mario Monti non avesse goduto di innegabili vantaggi. Primo: il sostegno dell’establishment internazionale in passato mancato ai predecessori, per incomprensioni di stile e linguaggio, oltre che di sostanza. Secondo: aveva, pur senza clamori, avviato il risanamento-disboscamento della spesa pubblica, oltre a porre i contribuenti di fronte alle proprie responsabilità in termini di civiltà fiscale. Così, appena la Borsa ha intravisto la possibilità che possa essere ancora un Monti a Palazzo Chigi, è iniziato il rally del recupero.
Guidato dagli investitori esteri: gli stessi scettici che sino a dodici mesi fa scommettevano su un «fallimento Italia», ora comprano azioni, obbligazioni, titoli pubblici nostrani, convinti che il tempo sia passato. E danno ora per scontato che l’italia non rinuncerà a seguire la strada tracciata da Monti.
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