
Assistenza domiciliare di un medico Vidas a Milano - 2021 Lorenzo dell'Uva / lorenzo@delluva.it
Le Cure palliative sono al centro del dibattito al Senato in vista della nuova legge sul fine vita. La domanda chiave è: sono un diritto o un dovere? E per chi? Sono trascorsi 15 anni dal varo della legge 38, approvata all’unanimità dal Parlamento mentre era ancora vivissima la vicenda Englaro. Si volevano garantire cure palliative a tutti i pazienti e si auspicava la creazione di centri per la cura contro il dolore in tutti gli ospedali. L’intenzione del legislatore era chiarissima.
Con un’unica legge si volevano abbattere due rischi che potevano indurre le persone all’eutanasia: la solitudine e il dolore. Da un lato c’è la paura di essere lasciati soli e senza cure, quando una grave disabilità fisica ed emotiva compromette l’autonomia personale e diventa un tarlo fisso, rende difficile addormentarsi, il cuore si riempie di malinconia e di rimpianti senza nome. E ci si chiede se valga ancora la pena vivere. Anche un dolore insopportabile, che resiste ai trattamenti ordinari e che i medici non sono in condizione di controllare, può generare desiderio di morire. Un dolore fisso, acuto, spesso cronico e senza speranza, perché niente e nessuno riescono a mitigarlo. Una tentazione costante di mettere fine alla propria vita perché con la sua presenza è impossibile vivere.
La legge 38 voleva intervenire su questo duplice piano per offrire al malato, attraverso le cure palliative, una nuova prospettiva di vita per non far sentire solo né lui né la sua famiglia e per liberarlo dal dolore, attivando una serie di farmaci che avrebbero potuto migliorare in modo significativo la sua qualità di vita. Lo ricordo perfettamente, perché ero relatrice della legge in Aula. Una norma di civiltà, prima in Europa, in linea con la nostra cultura dalle profonde radici cristiane, ma anche con la Costituzione attenta ai diritti della persona, senza discriminazioni tra sano e malato, o tra malato più o meno grave: tutti hanno diritto a ricevere le cure necessarie, secondo l’articolo 32 della Costituzione.
Una legge straordinaria, il cui unico torto è stato di non essere finanziata in modo sufficiente e di non essere stata accompagnata da un programma di formazione rivolto al personale sanitario e a tutti i cittadini, compresi caregiver e pazienti. Oggi, davanti a un cambiamento nell’opinione pubblica frutto di un martellamento ideologico, si è perso di vista il senso e il valore di questa legge, baluardo contro la deriva eutanasica. Per cui il diritto alle cure palliative si intreccia con una sorta di dovere che ne rendono obbligatorio il trattamento, mettendolo in un conclamato contrasto con la legge 219/2017 che prevede il rifiuto delle cure, anche quelle comunemente considerate salva vita. E se si possono rifiutare nutrizione e idratazione, perché non si dovrebbero rifiutare le cure palliative...
Ricordo il dibattito in Parlamento. Davanti al rifiuto di un qualsiasi trattamento da parte del paziente – articolo 1, comma 5 – comunque non veniva meno l’obbligo del medico di continuare a prestargli le cure necessarie. Tutto ciò poteva essere sintetizzato con l’espressione “cure palliative”, che anche nella legge 219 venivano garantite sotto forma di azioni di sostegno e di assistenza. Da allora invece di rafforzare l’opzione di tutela della vita di ogni singola persona, soprattutto delle più fragili, attraverso le cure palliative, è subentrata un’altra interpretazione della legge 219, diversa e divergente rispetto alla legge 38, con un pressing mediatico per cui al centro del dibattito non c’è la sofferenza del malato ma il principio di autodeterminazione, che ha come orizzonte la morte. Il diritto alle cure è diventato il diritto alla morte e paradossalmente le uniche “cure” ritenute desiderabili dal malato sono quelle che lo portano alla fine. Il paradigma della cura ha subìto un capovolgimento diventando “cura per morire”, quando e come voglio, e non una cura di accompagnamento alla morte, con i suoi tempi, con la compagnia e la vicinanza delle persone care.
Con la legge 38 si va incontro alle persone che vogliono imparare ad accettare la morte ma anche vivere la loro vita attimo per attimo nel miglior modo possibile, senza rimanere soli; sanno che qualcuno, a casa o in hospice, li aiuterà. Quindici anni di legge 38 hanno ancora molto da insegnarci sull’arte di accompagnare le persone fino alla fine, addolcendo la sofferenza e senza mai farle sentire di peso. Siamo tutti coinvolti in questa rete di profonda umanità, professionisti e familiari, in una dinamica di solidarietà in cui anche la scienza, oltre che l’assistenza, devono scoprire nuove modalità per alleviare il dolore fisico e psicologico e rendere la vita più serena e accettabile.