giovedì 3 novembre 2022
Scoppi imprevedibili, o approccio inadeguato della psichiatria? I due tragici casi di cronaca, tra Assago e Asso, con protagonisti pazienti già in cura riaprono il dibattito su una questione irrisolta
Un carabiniere al Centro commerciale di Assago dopo gli accoltellamenti tra le corsie del supermercato

Un carabiniere al Centro commerciale di Assago dopo gli accoltellamenti tra le corsie del supermercato - Fotogramma

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Morti e feriti dei giorni scorsi per mano di persone affette da disturbi psichici. La violenza scaturita dalla malattia mentale – va subito detto – non è mai un raptus, quasi che il cervello fosse come un orologio, a cui si è dato una martellata, fracassandolo. I malati, al contrario, conservano una loro razionalità, anche mandando espliciti segnali “prima”, che talvolta purtroppo non vengono recepiti. Eppure il brigadiere Antonio era stato “curato” e riammesso al servizio, dopo vari mesi di assistenza presso strutture ospedaliere pubbliche e dopo che una commissione medica, incaricata dall’Arma, ne aveva decretato la guarigione. Anche Andrea, prima del suo tragico gesto all’ipermercato di Assago, era stato ricoverato qualche giorno prima nel triage dell’ospedale San Paolo di Milano, dopo violenze contro gli anziani genitori. Se n’era andato senza farsi visitare, ma l’aspettava il 7 novembre una valutazione psichiatrica all’ambulatorio del centro psico-sociale del Dipartimento di salute mentale. Non si può dunque parlare di mancanza di attenzione da parte delle famiglie, dei luoghi di lavoro, delle strutture pubbliche, peraltro con poco personale e oberate da un lavoro immenso ed estenuante. Ma allora cos’è successo: l’imprevedibile, l’inatteso, il casuale? Possiamo contentarci dell’opinione diffusa, secondo cui la mente umana non è spiegabile e che talvolta “scoppia” in modo fortuito? Forse occorre compiere una riflessione in più, guardando al declino della psichiatria in Italia (e non solo), che sembra avere smarrito la sua carica epistemologica e la sua capacità diagnostica e clinica che pure, almeno sino a metà del Novecento, aveva raggiunto notevoli traguardi. Superando il famoso paradigma ottocentesco, riassunto dallo psichiatra Griesinger (1861) secondo cui «le malattie mentali sono malattie del cervello», si andava guadagnando una concezione più ampia e articolata della malattia mentale, anche grazie ai progressi della psicopatologia. Innanzitutto si cercava di guardare non tanto alla ricerca statistica della malattia quanto alla singolarità del paziente, che andava colto nel suo mondo, disarticolato e frammentato, ma pur sempre un mondo, chiuso eppure mai inaccessibile. Si trattava insomma di trovare metodi di avvicinamento a questi universi sconosciuti, con la pazienza e la cura di quanti intendevano “comprendere”, più che “spiegare” i loro disturbi. Con questo intento si aprivano universi sconosciuti, terre desolate, deserti inospitali che comunque, in vario modo, supplicavano sostegno, aiuto, comprensione. Basta leggere Jaspers, Binswanger e i molti pionieri della psichiatria fenomenologica (in Italia, Cargnello, Callieri, Borgna), per accorgersi che se le turbe psicotiche non potevano essere guarite certamente esigevano di essere seguite e curate con strumenti scientifici appropriati, e con un metodo sicuro: la relazione del malato con il medico e l’apertura del difficile dialogo. All’inizio muto e impenetrabile, ma successivamente, con la reciproca fiducia, sempre più illuminato da qualche scheggia di significato. E come non pensare, soprattutto per le nevrosi, al grande lavoro pionieristico di Freud, Jung e dei loro innumerevoli allievi che hanno certificato questo progressivo aumento di conoscenze intorno alle malattie mentali? Certo, significava investire nei tempi lunghi e nelle strutture pubbliche, capaci di organizzare questa fitta rete di incontri, ma quando ciò è stato possibile si sono aperti i cieli per questi malati. Basti pensare alle tante esperienze raccontate dagli stessi pazienti: vale, una per tutte, la vicenda drammatica ed esaltante di Alda Merini. Gli anni 60 del Novecento hanno poi raccolto la sfida rivoluzionaria della cosiddetta “antipsichiatria” di Franco Basaglia e della sua scuola, culminata nel 1978 con la legge 180 che decretava la fine dei manicomi. Il muro dell’internamento, l’angoscia e il vuoto emozionale ed esistenziale, la perdita della propria individualità, l’assenza di ogni futuro progetto, la totale oggettivazione della malattia: tutto questo poteva essere cancellato grazie al contatto con il mondo esterno, con la ripresa del proprio mondo degli affetti familiari e sociali. C’era ancora molto da fare, ma si era aperto uno spiraglio che poteva, e doveva, essere sostenuto da ben altri sussidi assistenziali. Ma un’altra insidia si profilava all’orizzonte: il progressivo sviluppo delle ricerche neurobiologiche e l’esplodere delle neuroscienze, volte a identificare i disturbi psichici con alcune precise aree del cervello finiva per riportare la psichiatria dentro la gabbia biologistico-fisicalista, rendendo residuale la dimensione personalista e sociale della ma-lattia mentale. L’analisi dettagliata delle varie zone del cervello con le sue complesse strutture neuronali e i suoi sistemi neuromodulari apriva un altro capitolo importante della psichiatria, chiamata a una nuova revisione del suo impianto epistemologico. Si trattava, in fondo, di accogliere i risultati di queste ricerche e di far interagire le diverse metodiche, al fine di guadagnare un orientamento diagnostico e clinico più complesso e più strategico per la comprensione dei disturbi psichici. Cos’è successo, invece? La psichiatria si è arresa alla neurologia, è diventata – ancora una volta, alla maniera di Griesinger – una encefaloiatria ( Eugenio Borgna). Più che entrare in relazione con il malato (processo lungo e dispendioso per le energie mediche) bastava guardarsi intorno e trovare nella farmaco-terapia il porto più sicuro (con l’approvazione entusiasta delle ditte farmaceutiche). Torniamo ad Antonio ed Andrea, malati mentali, riaffidati alle famiglie con il loro carico di farmaci da prendere ogni giorno, per sempre; oppressi dalla chimica e orfani di relazioni, imbottiti di sostanze artificiali e vuoti di significato intorno alle loro esperienze. Abbandonati a sé stessi, hanno malamente fatto comprendere che anche loro ci sono, come moltissimi altri, con i loro dolori e i loro mondi distrutti. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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