giovedì 27 ottobre 2022
Mentre si discute sulla strada più efficace per far cessare la guerra, tornano alla mente le parole del premio Nobel Madre Teresa su aborto e guerra. Che ci interrogano come quando furono pronunciate
Santa Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace

Santa Madre Teresa di Calcutta, premio Nobel per la Pace

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Una guerra che doveva durare pochi giorni sta devastando da molti mesi l’Ucraina, sconvolgendo le economie dell’intero continente, seminando lutti infiniti, straziando vite umane. Una follia, che vista da fuori, con gli occhi di un immaginario viaggiatore spaziale o d’un alieno che guardasse questo granello di polvere cosmica che chiamiamo Terra e che trasformiamo in aiuola feroce, restituirebbe lo spettro di una umanità impazzita. A volte par che tutto raddrizzi distinguere aggressori e aggrediti, ragioni e torti, cosa pur giusta, ma le bombe degli uni e degli altri danno egual morte, e la falce accomuna da ultimo le vittime nell’unica terra. Pensiamo persino di avere regole su come si amministra una strage, armi lecite e armi proibite, bersagli ammessi e bersagli criminali, esecrando i “crimini di guerra” catalogati fuori dello spazio di “ordinari” massacri. Ma la morte è la morte, la morte è una. Il crimine è già la guerra. Chi muore non piange più. Il pianto è di chi resta, e il lutto è delle madri. Mi ha sempre colpito, nei monumenti ai caduti che in ogni paese e villaggio del mondo celebrano gli uccisi, vincitori o vinti, la presenza della madre. Il monumento ritrae i giovani armati riversi, e fatti a forza gloriosi; ma sotto il frastuono architettonico delle aquile e dei leoni di bronzo o di pietra c’è la madre col figlio ucciso sulle ginocchia. La guerra è la maternità straziata, è l’infinito aborto del dono del grembo, dei nati da donna. Sui grandi cimiteri si levano poi le elegie. C’è un’enfasi epica, che parte dalle Termopili e trascorre nei millenni di guerre fino a estenuarsi e capovolgersi nello specchio atroce della “grande guerra” in cui Joseph Roth divinò una « vocazione alla morte». Visione che a noi oggi pare ancor nulla a confronto con l’olocausto e l’ecatombe nucleare che seguì vent’anni dopo. E ancora di poi, a tombe chiuse, la lirica di Primo Levi che mette insieme in un unico grido la voce dell’Esercito dei Morti Invano («...noi della Marna, di Montecassino, di Treblinka, di Dresda, di Hiroshima») e le tombe aperte e attuali in cui ci trascina la follia. Penso alla singolare similitudine di maternità straziata che c’è nell’aborto nel mondo, nella annuale strage di milioni di vite innocenti uccise, al lutto parallelo che inonda di morti il mondo senza pace, traendoli dal grembo. E non sono io che mi invento un nesso fra pace e vita e fra aborto e guerra, ma piuttosto risento con brivido le parole di una donna premio Nobel per la pace, che a Stoccolma dice: « Il più grande distruttore della pace è quello contro i bimbi innocenti mai nati». L’impatto della guerra come vocazione alla morte è nell’interpello «se una madre può uccidere il suo bambino, cosa impedisce a voi e a me di ucciderci l’un l’altro?». Gli storici studiano le cause delle guerre; i sociologi esplorano le cause degli aborti. L’una cosa e l’altra dovrebbero servire a prevenire, a fare pace. Non prevenire i conflitti, come non soccorrere le maternità difficili, è un’identica bancarotta morale.

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