giovedì 21 maggio 2020
La sentenza con la quale fu legalizzato l'aborto negli Stati Uniti porta il suo (falso) nome. Tre anni dopo la morte, ora un film denuncia che prese soldi per diventare pro-life. Ma è proprio così?
Norma McCorvey

Norma McCorvey

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Norma McCorvey è morta nel 2017, ma si parla ancora di lei. Una bambina della Louisiana cresciuta da una madre alcolizzata e violenta, scappata di casa a 10 anni, sposata a 16, incinta a 17. Una moglie maltrattata, portata giovanissima alla ribalta nazionale dal movimento abortista americano e divenuta, sua malgrado e pur non avendo mai abortito, il simbolo della legalizzazione dell’interruzione di gravidanza nel Paese. Una donna che ha lottato per tutta la vita contro alcol e droga e si è battuta per più di 20 anni per ribaltare la sentenza del 1973 con la quale la Corte suprema autorizzò milioni di donne ad abortire. Quella «Roe contro Wade» che le ha dato una nuova identità (Jane Roe, lo pseudonimo usato nei documenti legali) e l’ha seguita per la maggior parte della sua vita.

Oggi, quasi tre anni dopo la sua morte, un documentario sostiene che Norma non si sarebbe mai convertita alla difesa della vita. Nel trailer del film, che verrà trasmesso sulla rete americana Fx e su Hulu domani, la si sente dire: «Penso che sia stata una cosa reciproca. Ho preso i loro soldi e loro mi hanno messo di fronte alle telecamere e mi hanno detto cosa dire. Questo è quello che ho detto». Una «confessione in punto di morte», come viene presentata, che sta facendo discutere, ma che non sembra aver spostato di un millimetro il confine fra le parti. Per i difensori della vita, Norma resta una persona schiacciata dal ruolo che ha avuto nella legalizzazione dell’aborto. Per i pro choice, una donna debole strumentalizzata dai gruppi pro life.

A parte la rivelazione che gli garantirà ascolti sicuri, al documentario si può riconoscere il merito di voler mettere in primo piano la persona piuttosto che l’icona del dibattito sull’aborto negli Stati Uniti che si è trovata a rivestire. «Norma ha condotto una vita molto dura – spiega ad Avvenire Harold Cassidy, avvocato che ha aiutato McCorvey a presentare una causa in Texas contro le basi legali della sentenza –, ha vissuto sulla strada, è stata vittima di abusi. Aveva una personalità complicata e contraddittoria. A volte era affascinante, a volte difficile; chiunque l’ha conosciuta può dirlo. Ma penso che in vita, come in morte, meriti compassione». Cassidy non ha dubbi sulla sincerità della conversione di Norma, nel 1995, alla causa pro life. «Norma mi chiamò, senza che ci conoscessimo, e mi disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa per sbarazzarsi del peso che portava a causa della sentenza. Quando i documenti furono pronti, tenemmo una conferenza stampa e fu una delle poche volte in cui la vidi sorridere. Conviveva con molto dolore».

L’avvocato trova difficile credere che la donna possa aver “recitato” per 22 anni, e si chiede in quale contesto la sua confessione finale sia maturata, o se ci siano sue parole che non sono state inserite nel documentario. Anche dopo che il pubblico si sarà fatto un’opinione, resta la tristezza per un’operazione mediatica che toglie dignità a una donna che, come appare sempre più chiaro, non aveva l’ambizione di passare alla storia. Soprattutto come “Jane Roe”, un nome che non è nemmeno il suo.

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