martedì 14 gennaio 2025
“Prendersi cura” di un paziente non significa solo saper usare bene la tecnica ma metterci cuore e simpatia, spendere tempo, mettersi nelle paure di chi soffre e dipende dal suo medico
“Dottore, guarirò?”. Che speranza chiedono i malati a noi medici

foto Jessica Pasqualon

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Diceva Frederich Nietzsche: «La speranza è il peggiore tra i mali, perché prolunga i tormenti degli uomini». Se un medico si collocasse in questa prospettiva rischierebbe di perdere il senso della professione e delle motivazioni all’origine della sua scelta. La speranza, al contrario, è un sentimento positivo che aiuta a vivere e sopravvivere. Che va coltivata e alimentata in qualsiasi momento della malattia. E il malato, che per problemi di vita e di morte “punta” su lei, non può essere lasciato solo. Il medico deve essere il compagno che offre prossimità al suo disorientamento, alla sua sofferenza, e deve averne consapevolezza. Una figura che dà speranza e sa consolare per offrire un senso di continuità della vita all’interno di un atto di cooperazione, in cui la parola diventa determinante. Una parola amica di chi sa ascoltare, e consigliare, di chi, colto ed esperto, è disponibile a essere riferimento comunque vadano le cose.

Sì, la speranza è relazione! È empatia! Se chi soffre vede in chi lo assiste un amico ritrova pace interiore, lo spasimo delle domande che si fa e le angosce di fronte agli eventi vengono mitigati, e ricomincia a vivere. Certo, non è facile trovare le parole giuste, manifestare sicurezza, non avere titubanze nel parlare. Ma il malato vuole atteggiamento sicuro, mani calde e occhi negli occhi. Le parole hanno un’energia che va oltre il suono che emettono, hanno potere perché generano e producono effetti in chi si ha di fronte. Il malato deve percepire positività, che noi ci siamo e che ce la faremo. Non vuole pianti e commiserazioni, vuole segnali di normalità. Quindi non lacrime, non mestizia, ma forza nel dire e negli atteggiamenti. Non è un esercizio semplice. È un dire che si impara nel tempo, che richiede autocontrollo e capacità di ascolto. Dare speranza non è illudere il malato e, alla fatidica domanda: «Dottore, guarirò?», la risposta non può essere dogmatica, ma: «Lavoriamo insieme per fare andare le cose al meglio. La malattia, si può sempre curare e cronicizzare, anche se la guarigione totale non dovesse essere mai raggiunta. La medicina non è una scienza esatta, bisogna “aggiustare il tiro” strada facendo, a seconda della risposta alle cure, io comunque ci sarò sempre».

Il credente avrà una “terzietà” cui affidarsi, e sarà la fede la strada per dare continuità alla sua vita; l’ateo si abbandonerà al fato, e saranno i valori individuali e la forza in sé stesso lo strumento per proseguire; l’agnostico vacillerà, pendendo da una parte all’altra in cerca di un appiglio, continuando nella sua incertezza. Ma qualsiasi sia la situazione, il medico ci sarà sempre anche se non esiste una manualistica comportamentale. Ogni caso è a sé stante: quello che conta è una buona dose di umanità, filtrata dall’esperienza del quotidiano, avendo presente che il tempo del malato non è “il tempo dell’orologio”, che per dare speranza bisogna “spenderci magari ore” e che un atteggiamento distaccato, distratto, una parlata ex cathedra, silenzi destabilizzanti, supponenza verso le paure del malato lo distruggono. “Prendersi cura” di un paziente non significa unicamente usare bene la tecnica, ma metterci cuore e simpatia.

*Presidente emerito Cipomo (Collegio italiano Primari oncologi medici ospedalieri)

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