
Papa Francesco nel 2016 a Casa Iride. Sulla destra, Francesco Napolitano
È la mattina del 15 gennaio 2016 a Casa Iride, Roma, che ospita persone in stato cosiddetto vegetativo. Padre Lucio Zappatore, il parroco della zona, ci telefona. Sprigiona una incontenibile gioia spirituale; è una fucina di vitalità e di speranza, che traduce anche in versi romaneschi che sono “pezzi unici”: il «damose da fa’» di san Giovanni Paolo II è di sua diretta ispirazione. «Oggi pomeriggio fatevi trovare a Casa Iride». Non sembra un consiglio ma un ordine. «Mi hanno chiamato dal Vaticano per dirmi che ci verrà a trovare una eminenza ma non mi hanno detto il nome. Io comunque naturalmente ci sarò. Ci vediamo più tardi».
Da padre Lucio c’è da aspettarsi di tutto; rimango perplesso, ma il suo tono perentorio è convincente. All’ora di pranzo prego gli operatori sanitari di radunare tutti gli “ospiti” in un unico ambiente, per facilitare la visita di chi verrà a trovarci. «Ma è sicuro? –mi chiedono –, non è che ci troviamo a fare un doppio spostamento senza motivo?». «Fidatevi», rispondo.
Verso le 15.30 tutti gli “ospiti” sono insieme. Nella loro apparente impossibilità di alcun rapporto con gli altri e con il mondo, sembrano anche essi in qualche modo stupiti della frenesia che gira intorno a loro. Sono circa le 16. Vado al cancello del grande comprensorio, da dove dovrebbe entrare l’auto che aspettiamo. Di lì a Casa Iride sono circa duecento metri, attraversando nel percorso anche un Centro anziani. Vedo una utilitaria arrivare. Resto in attesa. L’auto si ferma. Qualcuno esce e apre la porta posteriore. Sporge dall’auto dapprima una caviglia e poi il ginocchio. Ma quello che mi fa sobbalzare è che la veste è bianca. Papa Francesco esce dall’auto e si incammina, protetto ma neanche troppo. Non ci credo, ma la incredulità deve lasciare spazio alla organizzazione della ospitalità. Capisco che verrà da noi dopo essere passato per il Centro anziani. E allora corro verso Casa Iride. Gli occhi appannati mi fanno sbandare, ma corro.
Mentre corro incrocio una ragazza con lo zainetto, sola in quello spazio senza nessuno e in attesa del tutto. Ho l’istinto di dirle: «Fermati; non proseguire; il Papa sta per passare qui davanti a te». Mi guarda con occhi che cercano di capire se sono di fronte a una squilibrato e se occorre mettere in moto il meccanismo della paura e della difesa. Capisco il suo sguardo ma insisto: «Telefona a casa e riferisci che tarderai; fidati». E continuo a correre trafelato. Arrivo alla Casa.
«È il Papa, sta arrivando qui da noi» grido entrando. «Ma dai, non ci prendere in giro», rispondono in coro gli operatori e i pochi familiari presenti. Non c’è tempo per parole di convincimento. Prego tutti di non muoversi dalla stanza di raduno e mi precipito alla porta d’ingresso della Casa. In tempo per andare incontro a papa Francesco e a accoglierlo. Sono naturalmente imbambolato. Qualcuno mi dice che devo indicargli la strada e introdurlo nella realtà che lo aspetta. Saliamo insieme in ascensore. La sua serenità e il suo sorriso allentano ogni mia tensione e allora le parole e il dialogo diventano semplici e spontanei.
Si accosta dolcemente a ogni “ospite”. Li presento uno ad uno, con le loro storie; ogni loro vita è unica e irripetibile. Papa Francesco percepisce di non poter avere risposte dagli “ospiti” e allora accarezza e benedice. Si avvicina ai familiari presenti e agli operatori. È un ambiente ristretto; è arrivato il capo-famiglia. Ascolta. Ecco quello che più mi colpisce. Il suo ascoltare, il suo immergersi nella vicenda e nella situazione personale di ognuno.
È la prima visita del primo venerdì dell’Anno giubilare della Misericordia. Papa Francesco ha voluto iniziare le sue visite a sorpresa da un luogo che rappresenta l’estremità della vita fisica e della disabilità. Tutti percepiamo che si sente perfettamente in sintonia con il suo essere, e così ci infonde una straordinaria spontaneità, di gesti, di sentimenti, di parole.
I familiari raccontano, chiedono. Le lacrime, che ogni giorno escono per sofferenza e per amore, oggi sono travestite della gioia del coraggio e della speranza. Nessuno ha voglia di fermarle. Perché lì dentro c’è il salato della vita, c’è la congiunzione tra le lacrime terrene e quelle celesti.
«Le realtà della vita si vedono soltanto con gli occhi puliti dalle lacrime» ci aveva cominciato a insegnare e ci avrebbe poi sempre insegnato papa Francesco. A ogni lacrima risponde con un sorriso. E poi di nuovo si avvicina agli ospiti, la mano benedicente sulla fronte. Osservo, prego con lui, mi immergo nel suo sguardo misericordioso.
In qualche modo il diavolo tentatore cerca di fare breccia, è geloso e irritato. Aveva provato tante volte a disarmare la Casa, a impedirle di esistere e di crescere. Aveva cercato in tanti modi di mostrare il sedicente “lato oscuro” di un posto, di una comunità per persone che “non ci sono”, di cui sarebbe “inutile” farsi carico. Oggi papa Francesco gli risponde non curandosi di lui.
Il suo messaggio – degli occhi, dei gesti, delle parole, di sé stesso – è inequivocabile e giunge diretto ai sentimenti di ciascuno: ognuno degli “ospiti” è nostro fratello e nostra sorella. E la carezza benedicente è assieme rivolta al corpo e allo spirito e proprio lì, su quei letti, c’è il Cielo a dirci che l’uomo è stato creato dal Signore in corpo e in spirito. Papa Francesco ci ripropone “in concreto” la esortazione della Evangelii gaudium, che aveva promulgato il 24 novembre 2013, per esortare a superare l’esclusione degli “scarti” e la “ globalizzazione dell’indifferenza” e per chinarsi sulle ferite del mondo.
Ecco, ora le lacrime hanno pulito tutto, e papa Francesco se ne accorge. I più deboli dei deboli Gli hanno tirato il cordone dell’abito e lui si è fermato, a consolare e a infondere un coraggio incorruttibile e una speranza “vera”, una speranza di vita. È la luce della fede. E sono ora più luminosi i visi anche di chi ne aveva, o forse ne ha poca.
Il grande insegnamento di papa Francesco: essere vicini a tutti i figli, senza nessuna distinzione; in particolare, immergersi con tutte le proprie possibilità nel mondo del prossimo più debole. In quell’ora trascorsa insieme le sovrastrutture si sono sciolte e liquefatte e ci è stata trasmessa la forza dei valori autentici della vita, i valori per cui siamo stati creati.
Un’ora trascorsa in una stanza, che potremmo definire di Paradiso. Neppure un lamento. Spesso in queste situazioni si cerca di “raccontare” per essere compresi e accompagnati nel proprio dolore. In quest'ora non ce ne è stato bisogno. È stato come partire da qualcosa di già conosciuto per approdare a rive più alte, dove la sofferenza si ammorbidisce e si congiunge con la luminosità della vita, di qualsiasi vita.
Si avvicina il momento del congedo. Vorremmo dire: “Signore, resta con noi, si fa sera”. Papa Francesco ha negli occhi una luminosità che avvolge: quegli occhi sembrano pieni di un “grazie” al Cielo per averlo accompagnato verso una estremità di vita e sembrano avvolti dalla consapevolezza di una “sorpresa” generatrice di momenti fuori del tempo e dello spazio, proprio quei momenti che cercava.
Dentro la Casa eravamo in pochi. Non avevamo però fatto i conti con la circostanza che le notizie “volano”, anche quella della sua presenza lì. All’apertura dell’uscita esterna ci troviamo così in presenza di una buona fetta del quartiere. C’è chi lo protegge e lo ripara dall’entusiasmo stupito delle sue “pecorelle”. Ma è disponibile per un sorriso a ciascuno sguardo che incrocia il suo. Con l’emozione dei minuti precedenti passati nella Casa, sembra che le sue benedizioni siano ancora più intense, più profonde. Sembrano chiedere “permesso” per raggiungere lo spirito di ciascuno.
Scorgo improvvisamente la ragazza con lo zainetto che avevo incrociato prima, mentre correvo. Mi guarda e in silenzio mi inonda di un sorriso candido. Forse da quel momento la sua vita ha iniziato un percorso di fede nuova, prima non ancora conosciuta.
L’auto papale riesce ad avvicinarsi. Non senza fatica il Papa conquista lo sportello posteriore, continuando ad allargare le braccia per unirsi a tutti.
L’auto inizia a procedere, lentamente, quasi a chiedere scusa per doversi allontanare. Mi avvicino ancora, per salutarlo con una mano che rimane su e che non riesco a far scendere lungo il corpo. Lui abbassa il finestrino e dice commosso: «Grazie per quello che fate». La mia mano continua a rimanere lassù, fino a voler toccare qualcosa che sta in Alto.
“Permesso” “Scusa” “Grazie”. Le parole che aveva iniziato a insegnare e che avrebbe predicato e insegnato per tutto il pontificato.
*Associazione Risveglio