martedì 20 maggio 2025
Con una nuova sentenza che chiarisce l’interpretazione delle precedenti sul tema, la Corte costituzionali rigetta il tentativo di allargare l’interpretazione dei “trattamenti di sostegno vitale”
Prima le cure: la Consulta delimita i confini del suicidio assistito
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La dipendenza della propria vita da trattamenti di sostegno vitale è requisito essenziale per essere ammessi a un percorso di morte medicalmente assistita, ma in Italia le cure palliative che costituiscono una salvaguardia per le persone che più soffrono e sono vulnerabili non sono ancora garantite come si dovrebbe. È lo scenario nel quale dovrebbe inserirsi l’intervento del legislatore ancora e con forza auspicato dalla nuova sentenza con la quale la Corte costituzionale interviene sulla questione della depenalizzazione dell’aiuto al suicidio in alcuni casi delimitati e a stringenti condizioni.

Dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata da uno dei numerosi casi giudiziari suscitati da azioni di membri dell’Associazione Coscioni nella loro campagna per l’eutanasia legale, la Consulta ribadisce quanto già affermato nelle tre sentenze-chiave sul tema (la 242 del 2019, la 50 del 2022 e la 135 del 2024) chiarendo alcuni punti che avevano suscitato un vivace dibattito interpretativo. Al centro del pronunciamento il no perentorio al tentativo degli attivisti pro-eutanasia di allentare il criterio dei trattamenti di sostegno vitale scolpito dai giudici costituzionali nel 2019 con altri tre (irreversibilità della patologia, presenza di sofferenze fisiche o psicologiche che il paziente reputa intollerabili, capacità di prendere decisioni libere e consapevoli) sino a renderlo di fatto inefficace, con l’equiparazione dei trattamenti stessi a qualunque presidio medico e terapeutico a cui sarebbe sottoposta non più una ristrettissima cerchia di persone in condizioni di sofferenza estreme ma una platea potenzialmente vastissima di cittadini.

«Non è costituzionalmente illegittimo – spiega la Corte – subordinare la non punibilità dell’aiuto al suicidio al requisito che il paziente necessiti, secondo la valutazione medica, di un trattamento di sostegno vitale». Rigettando come «non fondate varie questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice penale, sollevate dal Gip di Milano, al quale il pubblico ministero aveva chiesto di archiviare due procedimenti penali per aiuto al suicidio», la Corte costituzionale «ha rammentato quanto già precisato nella sentenza numero 135 del 2024, pubblicata successivamente all’ordinanza di rimessione: il requisito che il paziente dipenda da un trattamento di sostegno vitale è integrato già quando vi sia l’indicazione medica della necessità di un tale trattamento allo scopo di assicurare l’espletamento delle sue funzioni vitali, in particolare ogniqualvolta si debba ritenere che l’omissione o l’interruzione di tale trattamento determinerebbe prevedibilmente la sua morte in un breve lasso di tempo, e sussistano tutti gli altri requisiti sostanziali e procedurali indicati dalla sentenza numero 242 del 2019».

Il trattamento di sostegno vitale non è un qualunque intervento medico ma l’azione clinica senza la quale l’esito inevitabile e rapido è la morte. «Non è dunque necessario – precisa la Corte – che il paziente sia tenuto a iniziare il trattamento al solo scopo di poter poi essere aiutato a morire». Altra importante precisazione della Consulta è che «in assenza di una simile condizione, la Corte – reiterando considerazioni già svolte nella sentenza numero 135 del 2024 – ha ritenuto che non è discriminatorio limitare a questi pazienti la possibilità di accedere al suicidio assistito, e che tale limitazione non viola il diritto all’autodeterminazione del paziente».
È vero che non è «precluso al legislatore compiere scelte diverse, laddove appresti le necessarie garanzie contro i rischi di abuso e di abbandono del malato»: dunque – puntualizzazione molto importante mentre al Senato si sta discutendo una legge sul fine vita ispirata da quanto statuito dai giudici costituzionali – «al legislatore stesso deve riconoscersi un significativo margine di discrezionalità [...] nel bilanciamento tra il dovere di tutela della vita umana, discendente dall’articolo 2 della Costituzione, e il principio dell’autonomia del paziente nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona».

La Corte richiama poi come «essenziale» il carattere «che rivestono i requisiti e le condizioni procedurali per la non punibilità dell’aiuto al suicidio»: i giudici della Consulta sottolineano infatti la necessità sia di «prevenire il pericolo di abusi a danno delle persone deboli e vulnerabili» sia di «contrastare derive sociali o culturali che inducano le persone malate a scelte suicide, quando invece ben potrebbero trovare ragioni per continuare a vivere, ove fossero adeguatamente sostenute dalle rispettive reti familiari e sociali, oltre che dalle istituzioni pubbliche nel loro complesso». Evidente in questo passaggio il “favor vitae” che alla Corte preme mettere in chiaro in quella che sembra quasi più una sentenza interpretativa e chiarificatrice del combinato disposto delle precedenti.

Un aspetto questo che viene confermato dall’ultima parte della sentenza, dove la Corte rammenta che «costituisce preciso dovere della Repubblica garantire “adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte”». A questo proposito, va «osservato con preoccupazione che ancor oggi, nel nostro Paese, non è garantito un accesso universale ed equo alle cure palliative nei vari contesti sanitari, sia domiciliari che ospedalieri; vi sono spesso lunghe liste di attesa; si sconta una mancanza di personale adeguatamente formato e una distribuzione territoriale dell’offerta troppo divaricata; e la stessa effettiva presa in carico da parte del servizio sociosanitario, per queste persone, è a volte insufficiente».

Dunque non solo il legislatore viene richiamato ai suoi doveri ma anche il Servizio sanitario nazionale, e questa è una novità importante del pronunciamento (che rimanda anche al parere con il quale a fine 2023 il Comitato nazionale per la Bioetica sul ruolo oggi essenziale dell'accesso alle cure palliative): viene infatti «ribadito con forza l’auspicio [...] che il legislatore e il Servizio sanitario nazionale intervengano prontamente ad assicurare concreta e puntuale attuazione a quanto stabilito dalla sentenza n. 242 del 2019, ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina nel rispetto delle esigenze richiamate ancora una volta dalla presente pronuncia».

Non solo: per essere ancora più espliciti, e con la stessa forza con cui si rinnova lo «stringente appello» al legislatore, i giudici chiedono che venga dato corso a «un adeguato sviluppo delle reti di cure palliative e di una effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociosanitario, al fine di evitare un ricorso improprio al suicidio assistito». Inoltre la Consulta definisce «cruciale garantire adeguate forme di sostegno sociale, di assistenza sanitaria e sociosanitaria domiciliare continuativa, perché la presenza o meno di queste forme di assistenza condiziona le scelte della persona malata e può costituire lo spartiacque tra la scelta di vita e la richiesta di morte». Per la Corte costituzionale è «inoltre rilevante mettere a disposizione delle persone con malattie inguaribili tutti gli strumenti tecnologici e informatici che permettono loro di superare l’isolamento e ampliare la possibilità di comunicazione e interazione con gli altri. Al tempo stesso non può essere trascurato il “prendersi cura” anche di coloro che, nelle famiglie o all’interno delle relazioni affettive, assistono i pazienti in situazioni particolarmente difficili e per lunghi periodi». Il primato della cura nella quarta sentenza sul fine vita non poteva essere più chiaro.

E il “diritto di morire” attraverso il suicidio assistito, rivendicato come già esistente dalle stesse realtà associative all’origine dei ripetuti ricorsi (e del tentativo di ottenere l’eutanasia per referendum, respinto dalla Consulta nel 2022 con la sentenza 50)? La Corte lo boccia ancora senza appello con queste inequivocabili parole: «In un contesto storico caratterizzato da tensioni sull’allocazione delle risorse pubbliche, il cosiddetto “diritto di morire” rivendicato in alcune circostanze potrebbe essere paradossalmente percepito dal malato come un “dovere di morire” per non “essere di peso”, con un grave abbassamento della sensibilità morale collettiva che tutela le persone più fragili, spesso, peraltro, “invisibili”. Tale scivolamento colliderebbe frontalmente con il principio personalista che anima la Costituzione italiana. Da questo principio deriva, invece, il dovere della Repubblica di rispondere all’appello che sgorga dalla fragilità, in modo che una persona malata possa avvertire la solidarietà attorno a sé non a tratti, non a prolungate intermittenze, ma in via continuativa, attraverso un percorso di effettiva presa in carico da parte del sistema sanitario e sociale».

Ora il lavoro del Parlamento, che ancora stenta a trovare una linea condivisa e saggia per sciogliere un nodo oggettivamente complicato, sembra poter contare su un percorso più definito e chiaro, al riparo da interpretazioni fuorvianti e strumentali.

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