Violante: la vita umana, laicamente sacra. Non c’è un “diritto di morire”

Il giurista ed ex presidente della Camera interviene su Avvenirenel dibattito sul fine vita e su una nuova legge per il suicidio assistito. Ricordando «è sacro ciò che non può essere cancellato, a pena di dissolvere le ragioni stesse dell’umano»
November 5, 2025
Violante: la vita umana, laicamente sacra. Non c’è un “diritto di morire”
Luciano Violante
Avvenire ha aperto un confronto sulle ragioni della vita umana - etiche, giuridiche, mediche, antropologiche, dottrinali - di fronte alla grande questione del fine vita e di una possibile legge sul suicidio assistito, ospitando firme illustri del diritto, della medicina, della teologia, della bioetica (tutti gli interventi reperibili cercando "Scegliere sulla vita"). Ecco la riflessione di Luciano Violante.
La discussione attorno al fine vita si sviluppa in un’ambiguità che va chiarita. Intendiamo incrementare una sorta di “diritto a morire” oppure discutiamo dei casi nei quali il paziente ha una sofferenza talmente elevata da rendere disumana la sua vita e da rendere conseguentemente accettabile la morte? I primi intendono estendere al massimo i casi nei quali si possa disporre della propria vita; sono gli stessi che intendevano tramite un referendum rendere lecito, in alcuni casi, l’omicidio del consenziente. Ma, ferma la libertà di fatto, è dubbio che da noi possa configurarsi un tale diritto quando l’articolo 4 della Costituzione prescrive che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere , secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Chi disconosce l’esistenza di un “diritto a morire” ritiene che la morte possa essere l’ultimissima soluzione, determinata da una sorta di stato di necessità, e che occorra prima tentare di alleviare le sofferenze con cure palliative e con il sollievo del malato dalla sua solitudine. Se non si scioglie questa ambiguità continueremo a combattere sulla strada, miserevole, della proceduralizzazione della morte, della morte come conseguenza di procedure burocratiche e di disponibilità tecnologiche. Discuteremmo ancora di autorizzazioni, procedure e tecnologie e non del valore della vita e della morte. I cattolici, insieme a coloro che sostengono di esserlo, difendono per motivi religiosi l’intangibilità della vita e la non configurabilità, quindi, di un diritto a morire. Anche nella laicità, campo dai confini incerti e dai contenuti variegati, si può difendere la stessa sacralità della vita e della morte, sia pure con argomenti diversi. La vita e la morte sono inscindibili dall’umanità: nessuna nascita, nessuna vita, nessuna morte può essere riprodotta. Non è pensabile un essere umano che non sia nato, che non sia o non sia stato vivente, che non è morto o che non morirà. Non si nasce due volte, non si vive due volte, non si muore due volte. La nascita, la vita, la morte sono atti definitivi; la soppressione della nascita e della vita non prevedono appello. Ciò che è definitivo, prima di essere distrutto, richiede un supplemento di cura e di attenzione, a volte di vicinanza, perché non si può più tornare indietro. Ciò che attiene strettamente all’umanità, e non è riproducibile, diventa degno di rispetto; se trasmette valori, come li trasmettono la vita e la morte in quanto tali, è laicamente sacro.
Il concetto di sacro chiama in causa, quasi automaticamente, il campo della religione; ma può esistere un concetto di sacro che non richiama il divino, come fa la Costituzione quando scrive: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino» (articolo 52); e può esistere un concetto di laicità che richiama il divino senza collocarsi entro i confini di una specifica religione. È sacro ciò che non può essere cancellato, a pena di dissolvere le ragioni stesse dell’umano. Quindi tanto il laico quanto il religioso possono convenire, sia pure attraverso strade diverse, sulla sacralità della vita e della morte. Si possono perciò evitare gli automatismi per i quali lo Stato deve rispettare la volontà di morire (che può anche essere indotta) e deve quindi mettere a disposizione le strumentazioni idonee. Dall’altra parte si possono evitare i proceduralismi e i tecnicismi che, attraverso vari intoppi, tendono a procrastinare al massimo il momento della morte senza tener conto di alcune forme di sofferenza insopportabile. Sono entrambe disumanità da combattere, lasciando l’ultima parola al paziente e al medico. Bisogna lasciare al diritto il minor spazio possibile perché il diritto è la forma che abbiamo costruito per circoscrivere gli eventi, fissarli – come scrive Natalino Irti – in immobili schemi. Ma la vita e la morte continuano a scorrere, spezzano e disgregano le forme, perché l’umanità è più veloce del diritto.
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