«Suicidio assistito? La morte si accoglie, non si dà»
di Mauro Cozzoli
La legge sul suicidio assistito in discussione al Senato pone domande sulla qualità stessa della vita umana, per le quali il magistero della Chiesa offre le sue risposte. L'analisi del teologo

Cosa significa oggi curare le persone in situazioni di sofferenza estrema? Serve una nuova legge sul fine vita? Che princìpi deve rispettare? E qual è il confine tra tutela della vita e della libertà? Con la serie di articoli "Scegliere sulla vita" ascoltiamo voci e sensibilità differenti, in dialogo tra loro. Interviene don Mauro Cozzoli, teologo.
L’iter legislativo in atto nel nostro Paese, volto a codificare norme di comportamento riguardanti il fine vita, ha riacceso il dibattito su eutanasia e suicidio medicalmente assistito. Noi cattolici c’interroghiamo sulla conciliabilità delle «Disposizioni in materia di aiuto medico alla morte volontaria» – formulate nel testo-base in discussione in Parlamento – con il magistero della Chiesa sul fine vita.
L’insegnamento della Chiesa è centrato sulla indisponibilità e inviolabilità della vita umana in ogni condizione e fase del suo decorso temporale. È così delegittimata ogni eutanasia e suicidio medicalmente assistito. In luce di fede, perché la vita è dono di Dio, di cui il soggetto è custode e non padrone. In luce di ragione, perché la vita è un bene inoggettivabile.
La vita umana non è dell’ordine dell’avere ma dell’essere che io sono e di cui non dispongo. Io non ho una vita, io sono la mia vita. Per cui diciamo della vita ciò che diciamo della persona. La persona è la sua vita e questa ne rispecchia tutta la dignità e il valore. Verso la vita non abbiamo il potere che abbiamo sulle cose. La vita umana non è un bene di consumo, esaurito il quale, la si dismette. È un bene in sé, che non deriva da altro o da altri il suo valore. Essa vale per il suo “esserci”, non per il suo “modo di essere”. Come tale non perde il suo valore in nessuna condizione di disabilità, infermità, fragilità.
La persona è l’unico esistente con dignità di soggetto, non di oggetto. Come tale non riducibile a cosa, e perciò a oggetto di diritto. La persona è soggetto di diritto, non oggetto: «La persona è il diritto sussistente», diceva Antonio Rosmini. La vita partecipa di questo diritto. C’è pertanto un diritto alla vita, alla sua cura e tutela; non un diritto sulla vita. Di qui la sua inviolabilità. L’inesistenza di un diritto a morire delegittima ogni atto volto a mettere fine a una vita ritenuta non più degna d’essere vissuta. La morte si accoglie, non si somministra.
Riconoscere e difendere il bene indisponibile e inviolabile della vita non significa perseguire la vita a ogni costo. Il no all’eutanasia non consente alcuna forma di ostinazione terapeutica. Vale qui il principio di proporzionalità, per il quale si è tenuti – come insegna la Samaritanus bonus – a ricorrere a una cura o a non interromperla quando si dà un rapporto di debita proporzione «tra la cura e il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato». Motivo per cui «è lecito rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute».
Il principio è chiaro ma l’applicazione s’è fatta complessa e problematica. Il confine tra mezzi proporzionati e sproporzionati non è sempre evidente; molte volte è indistinto e incerto. Oggi – scriveva papa Francesco in un messaggio alla World Medical Association – «è possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute». Di fatto «la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo». Per di più «trattamenti progressivamente più sofisticati e costosi sono accessibili a fasce sempre più ristrette e privilegiate di persone e di popolazioni». Motivo per cui «nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare». «Non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti». Discernimento che approda a un giudizio, in scienza e coscienza, di ciò che è da fare o da evitare.
Una legge dello Stato che traduce in ordinamenti legislativi questi indirizzi etici è da favorire. Mentre è da disapprovare una legge che li smentisce. A una valutazione complessiva il testo-base in discussione al Parlamento è contestabile nella parte (art. 2) che depenalizza il reato di aiuto al suicidio, favorendo così quello scivolamento (slippery slope) verso interpretazioni e applicazioni sempre più permissive della legge. Il parlamentare cattolico deve adoperarsi per correttivi in linea con l’inviolabilità della vita. Ciò non toglie che, nell’impossibilità che ciò avvenga e per evitare che si approvi un testo peggiorativo, «un parlamentare – chiariva Giovanni Paolo II in Evangelium vitae – potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui».
Professore emerito di Teologia morale Pontificia Università Lateranense
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