Gemelle Kessler: le nostre domande quando si spengono le luci
Il duplice suicidio di Alice ed Ellen commuove un Paese che le ha amate come personaggi tv ma esige che ci poniamo davanti al loro dramma umano di persone oltre i personaggi. E ci interroga sulle regole per la morte assistita

Gemelle in vita e in morte. Il suicidio di Alice ed Ellen Kessler ha commosso le generazioni che le associano agli anni della tv in bianco e nero, del canale unico Rai e dei sabati sera in famiglia a canticchiare le canzoncine di un varietà leggero che tanta tv degli anni successivi ci avrebbe mostrato persino come un esempio di leggerezza educata, di stile rispettoso e garbato, di spensieratezza della quale le due soubrette tedesche erano diventate il simbolo. Ecco: saperle morte suicide stringe il cuore. E no, non c’è pensiero della insopportabilità della vita l’una senza l’altra che possa addolcire l’amarissima notizia della morte simultanea. Un suicidio è un colpo al cuore, una scelta disperata, una tragedia, sempre. Due persone inseparabili in vita che decidono di farla finita insieme semmai duplicano il dolore, legato anche al fatto che Ellen e Alice un po’ erano di famiglia per tanti italiani dai cinquanta in su.

Anche per questo suonano del tutto fuori posto le considerazioni di chi ritiene che la morte volontaria con un farmaco letale sia un segno coerente di una “modernità” che sarebbe passata sessant’anni fa per il loro uso del corpo nello spettacolo leggero (e oggi si sorride di tenerezza davanti all’oceano di volgarità digitale che costituirebbe il frutto maturo di quella libertà). Altrettanto stridenti sono le considerazioni di quanti dicono che morendo così hanno voluto mostrare di essere libere e dignitose, implicitamente dicendo agli italiani che quando la vita pare non avere più senso il suicidio sia una soluzione di dignità e libertà. Noi restiamo dell’avviso di tutte le famiglie che hanno attraversato il dolore immenso del suicidio di un proprio caro: la scelta di morire non è mai del tutto “libera”, e chi soffre un dolore profondo la dignità della propria esistenza la vede riflessa negli occhi degli altri, di una società che oggi sembra farsi indifferente alle “libere scelte” di persone sofferenti o disperate. Pensiamoci bene.

Per questo la decisione delle gemelle Kessler ci interroga, e non solo perché i frammenti di “teche” televisive che scorrono su tutti i canali ci ricordano con affetto e nostalgia che queste due donne splendenti e talentuose sono state amatissime dagli italiani. Dire che un suicidio (la seconda causa di morte per i giovani in Occidente secondo l'Oms, e in rapida crescita nella popolazione generale in Italia con 10 suicidi al giorno, come dice l'Istat) sia accettabile e persino desiderabile se si aggiunge l’aggettivo “assistito” vuol dire mescolare le carte delle coscienze per nascondere la realtà di un fatto che andrebbe sempre prevenuto, scongiurato, sventato, e alla fine pianto come una sconfitta collettiva dolorosa. Per questo qualunque disciplina giuridica si voglia (o si debba) introdurre in questa materia deve anzitutto guardare alla vita di ciascuno come un bene di tutti, così come ci dice con immutata chiarezza l’articolo 32 della Costituzione, e la stessa Corte costituzionale ha ricordato più e più volte pur aprendo circoscritte eccezioni al principio della punibilità di chi aiuta a suicidarsi una persona che glielo chiede. Se una legge serve, abbia presente chi la scrive che la vita va protetta in ogni modo proprio quando è più fragile, quando le luci della ribalta svaniscono e restano solo i ricordi, quando il pubblico spegne la tv e fischietta spensierato la canzoncina ma può dimenticare che chi gliel’ha fatta amare era una persona (due, in questo caso) con la quale condivide la fragilità, la paura, il dolore, l’impressione che un giorno dopo l’altro la vita possa diventare senza speranza. Persone, non personaggi. Il nostro sapere morale profondo di popolo che ama la vita e fa di tutto, da sempre, per mettere in salvo quella altrui ci dice che quando si è più vulnerabili a questo abisso serve una società intera che ti si fa attorno e che con ogni mezzo (il sistema sanitario, l’opinione pubblica, le leggi, le sentenze...) ti dice che la tua vita vale fino in fondo, e che è quella la vera libertà e dignità che ti va assicurata anche quando pensi il contrario.

In Germania hanno scelto sinora la strada della sentenza che “fa legge”, provando senza successo a trovare una maggioranza ampia attorno a una norma parlamentare sul fine vita. L’esito sono alcune centinaia di casi all’anno, tanti, troppi, molti meno delle migliaia che contano Belgio, Olanda e Canada come in una guerra dove a vincere è la scelta di morte. Il pronunciamento con il quale la Corte costituzionale di Karslruhe ha depenalizzato cinque anni fa il suicidio assistito si è limitato a esigere la sola verifica della piena consapevolezza della scelta suicida, non coinvolgendo la sanità pubblica in una decisione considerata del tutto privata (e infatti le gemelle sono morte a casa loro, aiutate da un’associazione tristemente specializzata nei suicidi). La nostra Consulta, fedele a quei principi umanistici che segnano ancora in profondità il Paese, è stata invece assai più cauta e garantista, facendo appello al Parlamento perché legiferi e intanto scolpendo un perimetro che molti stanno cercando di svellere per arrivare alla eutanasia legale (che la Germania, memore del suo passato, ci ricorda essere un obbrobrio, vietandola tassativamente).

Che strada vogliamo imboccare? Abbiamo elementi sufficienti per riflettere con estrema attenzione sulle “scelte di fine vita”, mentre custodiamo – ognuno come può e come desidera – il ricordo di due donne che hanno speso la loro arte per farci compagnia. E che forse ci stanno ricordando di non lasciare solo più nessuno quando si spengono le luci sulla sua vita.
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