Fine vita e “sostegno vitale”: cercasi punto di equilibrio
di Stefano Semplici
Le posizioni contrapposte sul suicidio assistito, con argomenti che sembrano cancellare lo spazio per ogni mediazione, rischiano di diventare trappole che non consentono di concentrarsi sull’essenziale per arrivare a una buona legge. Che è possibile. La posizione del filosofo.

Cosa significa oggi curare le persone in situazioni di sofferenza estrema? Serve una nuova legge sul fine vita? Che princìpi deve rispettare? E qual è il confine tra tutela della vita e della libertà? Con la serie di articoli “Scegliere sulla vita” ascoltiamo voci e sensibilità differenti, in dialogo tra loro. Interviene Stefano Semplici, filosofo.
Nel dibattito bioetico, come in quello politico, il confronto che cerca con sincerità il punto di equilibrio possibile fra opinioni diverse viene spesso scambiato per debolezza, e si scansa a colpi di slogan una complessità che dovrebbe alimentare il rispetto e il riconoscimento delle altrui ragioni e sensibilità anziché il malcelato disprezzo e la corsa a “prendere tutto”. In questo contesto, anche il confronto parlamentare sul fine vita sembra essersi arenato e le mediazioni, quando ci sono, restano all’interno del proprio “campo”.
Si può uscire da questa trappola? Certamente sì, ma occorre il coraggio di partire dal vero problema, la cui elusione rende inutili le continue rielaborazioni di articoli e commi che alla fine saranno approvati – se lo saranno – da una maggioranza esposta al rischio della prova nei tribunali (si veda il destino della legge sulla procreazione medicalmente assistita), nelle urne delle prossime elezioni o in quelle di un referendum.
La situazione è chiara. Per alcuni le sentenze della Corte costituzionale che hanno riconosciuto un perimetro di non punibilità per l’assistenza al suicidio sono un male al quale porre rimedio, nei limiti in cui ciò è possibile. Opporsi all’approvazione di una legge può apparire una soluzione, evitando così ogni forma di collaborazione al male e lasciando che esso venga contenuto (fino a quando?) da incertezze interpretative, burocrazia e defatiganti contenziosi. Se una legge si deve fare, si tratterà di lavorare di cesello con il lessico e la perizia dei giuristi, piegando (forzando?) la lettera e lo spirito delle decisioni della Corte nella direzione di un testo che restringa ulteriormente il perimetro di applicabilità e salvaguardi la missione dello Stato e dei suoi medici da un inaccettabile deragliamento. Dall’altra parte ci sono coloro che considerano le sentenze un semplice punto di partenza e continuano a incalzare la Corte nella speranza di guadagnare nuovo terreno e arrivare al pieno riconoscimento del “diritto” a scegliere quando morire e a essere aiutati a farlo (eutanasia inclusa). Queste posizioni sono evidentemente inconciliabili.
Non c’è nessuno in mezzo? È vero, a mio avviso, l’opposto ed è per questo che una “buona” legge è possibile. Si può discutere sull’opportunità e sui modi di interventi della Corte costituzionale che sollecitano l’approvazione di una legge e, di fatto, danno istruzioni su come scriverla, ma non si può ragionare come se quegli interventi non ci fossero. È possibile che la giurisprudenza della Corte cambi, ma, almeno per il momento, tutti dovrebbero accettare di prendere sul serio i requisiti indicati e partire dal punto più delicato anziché accapigliarsi sul ruolo delle cure palliative e del Servizio sanitario nazionale (che pure sono, a scanso di equivoci, temi importanti). Patologia irreversibile, sofferenze intollerabili e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli devono essere accompagnate da trattamenti di sostegno vitale, ed è da quest’ultimo requisito che dipendono l’argomento utilizzato dalla Corte (il riferimento al diritto già riconosciuto di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, andando incontro in tempi brevi a una morte che in questo modo si tratterebbe solo di anticipare di poco) e la tenuta di un perimetro che si vuole resti circoscritto.
Le opinioni su cosa si debba intendere per “sostegno vitale” sono molto diverse e variano dal “quasi niente” al “quasi tutto” (e alcuni vorrebbero semplicemente sbarazzarsi del requisito). È possibile trovare un punto di equilibrio fra questi estremi? Si può immaginare, per esempio, che un paziente, in presenza degli altri requisiti, possa chiedere l’assistenza (medica) al suicidio quando si trova nella condizione in cui, rifiutando tutti i trattamenti sanitari o chiedendone la sospensione, andrebbe incontro alla morte in un breve lasso di tempo (ragionevolmente nell’ordine delle settimane o di pochi mesi)? Con l’esplicita precisazione, tuttavia, che non sarà possibile ottenere l’accesso alla procedura semplicemente attraverso il rifiuto o l’interruzione di trattamenti non particolarmente invasivi che consentirebbero di proseguire per un tempo prolungato una vita libera da gravi sofferenze fisiche, fatte salve le condizioni di totale o pressoché totale dipendenza da altri. Se non c’è convergenza su questo punto, cercarla e magari trovarla su altri non eviterà che continui a esserci molto lavoro per i tribunali.
Professore ordinario di Etica sociale - Università Tor Vergata, Roma. Componente Comitato nazionale per la Bioetica
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