Cos’è la “tolleranza immunitaria” e perché è una scoperta da Nobel
Risposte immunitarie, malattie autoimmuni, immunoterapia...: c’è molto da imparare “scavando” nel significato del premio per la Medicina appena assegnato a tre ricercatori

Perché il sistema immunitario, il nostro scudo contro le infezioni e le minacce esterne, non attacca i tessuti dell’organismo? E come la comprensione di tale meccanismo potrebbe essere utile per attivare modalità in grado di eliminare anche le cellule alterate (come quelle tumorali) che causano malattie nel nostro corpo?
Il Nobel per la Medicina di quest’anno è stato assegnato a tre scienziati «per le loro scoperte sulla tolleranza immunitaria», come recita la motivazione del premio. Un meccanismo biologico atto a evitare che il sistema immunitario danneggi il corpo umano. Le loro ricerche hanno però anche «portato allo sviluppo di potenziali trattamenti medici, attualmente in fase di valutazione in studi clinici», per «poter curare o trattare le malattie autoimmuni, fornire terapie oncologiche più efficaci e prevenire gravi complicazioni dopo trapianti».
Shimon Sakaguchi, immunologo giapponese dell’Università di Osaka, è stato il primo, trent’anni fa, a scoprire le cellule T regolatrici: linfociti che nascono nel midollo osseo ma maturano nel timo. Nel 2003 dimostrò che lo sviluppo di queste cellule, elementi fondamentali per la difesa dell’organismo, sono regolate da un particolare gene – il Foxp3 – scoperto due anni prima da due scienziati statunitensi (che ora condividono il Nobel con lui): Mary E. Brunkow, biologa molecolare dell’Institute for Systems Biology di Seattle, e Frederick J. Ramsdell, immunologo presso il Parker Institute for Cancer Immunotherapy di San Francisco.
Ma qual è il valore di questa scoperta? Il sistema immunitario è come un “corpo di polizia”, che protegge l’organismo da ciò che è estraneo o, più correttamente, da ciò che non riconosce – dal punto di vista biologico – come appartenente a sé stesso. I suoi bersagli naturali sono le minacce esterne, soprattutto infettive (batteri, virus, funghi), per riconoscerle e sconfiggerle in modo che non arrechino danni all’organismo coinvolto. Esiste però un meccanismo del sistema immunitario – la tolleranza immunitaria, appunto – che impedisce che le sue azioni siano erroneamente dirette anche verso elementi propri del corpo. Se questo meccanismo non funziona correttamente, cioè se il sistema immunitario perde questa tolleranza verso le proprie componenti, si verifica un grave problema: si sviluppano le cosiddette “malattie autoimmuni”, come per esempio l’artrite reumatoide o la sclerosi multipla, che insorgono perché il sistema immunitario indirizza i suoi dardi contro bersagli sbagliati.
Il merito dei tre scienziati premiati è stato dunque di aver chiarito i meccanismi per cui il sistema immunitario funziona correttamente e di aver individuato le cause per cui può andare incontro al malfunzionamento che determina condizioni patologie nell’individuo.
Sakaguchi, oltre che scoprire l’importanza del timo (una ghiandola linfoide collocata nella specie umana dietro lo sterno) per la maturazione dei linfociti T, riconobbe anche il meccanismo per cui la stessa ghiandola era in grado di eliminare quelli che potevano attaccare le componenti proprie dell’organismo (tolleranza centrale), ma riuscì anche a identificare l’esistenza di un altro tipo fondamentale di meccanismo non centrale: un’attività soppressiva in grado di evitare che il sistema immunitario agisse in modo eccessivo verso elementi propri dell’organismo (“tolleranza periferica”). La scoperta di queste cellule T regolatorie è stata fondamentale per comprendere il corretto funzionamento del sistema immunitario.
Gli statunitensi Brunkow e Ramsdell sono invece riusciti a identificare le mutazioni del gene Foxp3 (implicato nello sviluppo dei linfociti T regolatori) come quelle responsabili delle alterate risposte autoimmunitarie, cioè del malfunzionamento del sistema di difesa, che attaccava così, non riconoscendole come proprie, anche cellule e tessuti dell’organismo in cui era presente. Questi studi genetici sono stati essenziali per comprendere le cause che portano alla perdita della tolleranza immunologica.
Tutte queste scoperte, sul piano teorico, hanno trasformato la comprensione del sistema immunitario, mentre, dal punto di vista pratico, hanno aperto promettenti prospettive per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici. Nel caso delle malattie autoimmuni si mira a potenziare il numero e l’azione delle cellule T regolatorie per spegnere le risposte autoimmunitarie che sono all’origine della condizione patologica. Nel caso dei trapianti d’organo sarebbe utile invece imparare a regolare o a inibire le risposte del sistema immunitario, creando in tal modo un suo “malfunzionamento terapeutico” finalizzato a evitare il rigetto. Infine, per contrastare l’azione dei tumori sarebbe utile rendere queste cellule neoplastiche alterate più vulnerabili all’attacco del sistema immunitario, “addestrandolo” a imparare che in questi casi la risposta autoimmune è lecita e auspicabile. Questa è forse la strategia più difficile da insegnare al sistema immunitario, perché le cellule tumorali, che pure sono diverse rispetto a quelle normali, si mimetizzano spesso con astuzia, nascondendo abilmente quello che può attirare l’attenzione del sistema immunitario. Ricoprendosi di molecole che confondono le “sentinelle” immunologiche evitano di essere attaccate ed eliminate.
Una delle motivazioni per cui il Nobel è stato assegnato agli scopritori del funzionamento del sistema immunitario è però, a mio avviso, anche legato all’intenzione di indicare una direzione specifica verso la quale si deve orientare la medicina del futuro. Proprio grazie a ciò che queste ricerche suggeriscono, le terapie innovative dovranno sempre più essere realizzate attraverso l’uso curativo finalizzato di meccanismi biologici che l’individuo già possiede intrinsecamente nel proprio corpo, rispetto all’impiego medico – ora prevalente – di sostanze chimiche estranee, impiegate come farmaci per intervenire a fini terapeutici sulle condizioni patologiche dell’organismo. Un’inevitabile “rivoluzione medica” in divenire, che non tarderà a essere realtà scientifica e a costituire una pratica abituale in ambito sanitario.
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