Cervello & persona: una buona vita psichica e relazionale per invecchiare bene
Salute mentale e longevità al centro di un dibattito internazionale a Roma con alcuni dei massimi esperti mondiali. Da tre di loro un intervento per Avvenire sulle frontiere della conoscenza scientifica sulla longevità

Il 10 ottobre si è celebrata la Giornata mondiale della salute mentale istituita nel 1992. Nelle aule dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, immerse nel verde di via degli Aldobrandeschi a Roma, si è svolto il primo Colloquio mondiale dell’International College of Neuroethics and Neuroscience (ICONN), una due giorni che ha riunito – dal 29 al 30 settembre scorsi – alcuni tra i più autorevoli esperti internazionali di neuroscienze, psichiatria, politiche sociali sanitarie e neuroetica per discutere il tema “From Brain Disorders to Broken Freedoms: Neuroethics of Schizophrenia”. L’incontro, promosso dai fondatori dell’ICONN Katherine Warburton (University of California Davis), Stephen M. Stahl (University of California San Diego e Riverside) e Padre Alberto Carrara, LC, neuroeticista e Decano della Facoltà di Filosofia dell’Ateneo Regina Apostolorum, ha voluto porre al centro del dibattito mondiale la questione della dignità e della libertà delle persone affette da disturbi psicotici gravi, intrecciando il rigore della ricerca scientifica con la profondità dell’etica e del diritto.
A portare il loro contributo sono stati studiosi provenienti da quattro continenti, tra cui Roger McIntyre (University of Toronto), Maurizio Pompili (Sapienza Università di Roma), Rajiv Tandon (Western Michigan University), Christoph Correll (Charité University Hospital), Felice Carabellese e Lia Parente (Università di Bari), Charles Scott (UC Davis), Harry Kennedy e Mary Davoren (Trinity College Dublin), Andrew Ellis (University of South Wales), Domenic Sisti (University of Pennsylvania), Sejal Shah e Frank Tarazi (Harvard Medical School), Henry Nasrallah (University of Cincinnati) e Ken Rosenberg (Cornell Medical College).
Dalla biologia della schizofrenia alla sua dimensione sociale, giuridica, antropologica ed etica, i panel hanno attraversato i temi più sensibili del nostro tempo: l’anosognosia, il diritto alla cura, la prevenzione del suicidio, la deistituzionalizzazione, la criminalizzazione della malattia mentale. Due giorni di confronto intenso e appassionato, che hanno dato vita a un documento di consenso internazionale sulla cura umana e integrale delle persone affette da psicosi.
La salute mentale, infatti, rappresenta una delle grandi sfide anche della longevità contemporanea. Il Vaticano se ne è occupato nel recente primo Vatican Longevity Summit del 24 marzo scorso organizzato dall’Istituto Internazionale di Neurobioetica (IINBE). Se l’aumento dell’aspettativa di vita è oggi una conquista sociale e medica senza precedenti, il mantenimento della salute cerebrale e del benessere psichico lungo il corso dell’esistenza si impone come condizione necessaria perché tale conquista non si trasformi in un fardello individuale e collettivo.
Le neuroscienze, insieme alla neuroetica, ci mostrano che invecchiare bene non significa soltanto preservare la funzionalità fisica, ma anche garantire la qualità della vita psichica e relazionale. L’invecchiamento cerebrale, infatti, non riguarda solo le patologie neurodegenerative come l’Alzheimer o il Parkinson, ma anche l’incidenza di disturbi psichiatrici gravi che, se trascurati, compromettono la dignità e la libertà della persona.
La vulnerabilità dei disturbi mentali gravi
Uno dei casi più emblematici di questa sfida è la schizofrenia, patologia che colpisce circa l’1% della popolazione mondiale, ma con un impatto sociale e sanitario sproporzionato. I dati provenienti dagli Stati Uniti sono allarmanti: le persone con schizofrenia costituiscono fino al 30% della popolazione senza fissa dimora, il 15% dei detenuti nelle carceri statali e quasi un quarto delle persone incarcerate nei penitenziari locali. Oggi, più individui affetti da gravi malattie mentali si trovano in prigione che negli ospedali. Una ricerca dell’Università di California Davis rivela che il 67% di questi pazienti vive in condizione di senzatetto (homelessness) al momento dell’arresto, che quasi la metà non ha mai ricevuto servizi di salute mentale coperti dal sistema sanitario (negli USA: Medicaid), e che il 70% viene nuovamente arrestato entro tre anni dalla scarcerazione. La mancanza di insight – cioè, la scarsa consapevolezza di essere malati e della necessità di cure – colpisce circa il 60% dei pazienti con schizofrenia, ostacolando l’adesione ai trattamenti e la possibilità stessa di compiere scelte libere e informate. Si tratta di dati che non possono lasciare indifferenti, perché evidenziano la necessità di politiche pubbliche adeguate, percorsi terapeutici integrati e una riflessione etica condivisa.
La natura complessa e multifattoriale della schizofrenia
La schizofrenia non è una malattia unitaria, bensì una sindrome eterogenea che si manifesta in forme e intensità diverse a seconda dei pazienti. È caratterizzata da un insieme di sintomi positivi (allucinazioni, deliri), negativi (apatia, ritiro sociale), cognitivi (difficoltà di memoria e attenzione), affettivi e motori, che si alternano in fasi di remissione e ricaduta. Si tratta di una condizione complessa, con una prevalenza lungo l’arco della vita pari allo 0,7%, in cui la mancata consapevolezza della malattia – l’anosognosia – ostacola l’accettazione delle cure. La ricerca neuroscientifica evidenzia come la schizofrenia non segua un’unica via patogenetica, ma sia piuttosto il risultato dell’interazione tra fattori genetici ed ambientali. Dal punto di vista genetico, il rischio non è legato a un gene isolato, ma a migliaia di varianti comuni che, ciascuna con un piccolo effetto, aumentano la vulnerabilità; alcune di queste varianti si ritrovano anche in altre condizioni psichiatriche, come il disturbo bipolare, l’autismo o l’ADHD. Sul piano ambientale, invece, giocano un ruolo fattori quali la residenza in aree urbane durante l’infanzia, l’esperienza migratoria, l’età paterna avanzata, l’uso di cannabis, i traumi infantili, le infezioni materne in gravidanza e complicazioni perinatali come l’ipossia. Tutto ciò contribuisce a modificazioni nello sviluppo cerebrale, con riduzione del volume totale del cervello e in particolare della sostanza grigia, segnalando la natura neuroevolutiva e progressiva del disturbo.
Alterazioni neurobiologiche e biomarcatori della schizofrenia
La schizofrenia è associata a profonde alterazioni in molteplici circuiti cerebrali, che influenzano le funzioni cognitive, affettive e motorie. Tra i meccanismi più studiati vi è la disfunzione dopaminergica: le tecniche di neuroimaging, come la tomografia a emissione di positroni (PET), hanno mostrato un aumento del turnover della dopamina nelle aree striatali associative e sensorimotorie. Questo eccesso di attività dopaminergica è correlato principalmente ai sintomi positivi, come deliri e allucinazioni, ma non spiega da solo la complessità del quadro clinico. Per questo motivo, oggi si parla sempre più di un disturbo a base “plurifattoriale” che coinvolge l’interazione tra più sistemi neurotrasmettitoriali e più circuiti neuronali. Inoltre, la riduzione della sostanza grigia osservata in varie regioni del cervello suggerisce un’alterazione dei processi di sviluppo e di plasticità neuronale, che accompagna il decorso clinico della sindrome. Tali evidenze rafforzano la necessità di un approccio terapeutico che non si limiti a sopprimere i sintomi, ma miri a preservare le funzioni cognitive, migliorare la qualità della vita e ridurre le ricadute. La sfida, oggi, è individuare biomarcatori precoci e affidabili che possano predire l’insorgenza della malattia e orientare strategie di intervento personalizzate, prevenendo le conseguenze più gravi del disturbo.
L’efficacia e i limiti degli antipsicotici
La domanda cruciale è se gli antipsicotici funzionino davvero. Le evidenze mostrano un quadro complesso: negli studi clinici randomizzati, condotti su pazienti moderatamente malati e in grado di fornire consenso, solo una parte dei partecipanti raggiunge un miglioramento clinico del 20% – livello che viene considerato una “risposta terapeutica”. Tuttavia, il dato cambia radicalmente nei pazienti con forme gravi di schizofrenia: fino al 90% di coloro che non sono considerati capaci di affrontare un processo a causa del disturbo riacquista la competenza legale dopo circa 150 giorni di trattamento antipsicotico, indipendentemente dal farmaco o dalla formulazione utilizzata. Se assunti regolarmente, questi farmaci prevengono le ricadute, riducono la mortalità complessiva e abbassano significativamente il rischio di suicidio. È interessante notare che l’efficacia degli antipsicotici nel prevenire recidive e ricoveri è superiore a quella di farmaci largamente utilizzati in altri ambiti: ad esempio, è maggiore dell’efficacia delle statine nella prevenzione degli eventi cardiovascolari maggiori, degli ACE-inibitori nella prevenzione degli eventi cardiovascolari, della metformina nel ridurre la mortalità del diabete di tipo 2 e perfino dell’aspirina nella prevenzione secondaria di eventi cardiovascolari gravi. Questi dati dimostrano che, nonostante limiti e possibili effetti collaterali, gli antipsicotici rimangono lo strumento terapeutico più efficace a nostra disposizione per gestire la schizofrenia, soprattutto se inseriti in un contesto integrato di cura, supporto psicosociale e strategie di prevenzione delle ricadute.
Etica e diritti del paziente fragile
Le implicazioni mediche ed etiche sono profonde e toccano i principi fondativi della bioetica contemporanea. Il dovere di non nuocere (nonmaleficence), quello di promuovere il bene del paziente (beneficence), la giustizia intesa come equa distribuzione delle risorse e dei trattamenti, e il rispetto dell’autonomia personale costituiscono i pilastri di un approccio etico al trattamento dei disturbi mentali gravi.
Tuttavia, quando il paziente non ha sufficiente insight o capacità decisionale, come garantire il diritto all’autonomia senza abbandonarlo al proprio destino?
La storia recente mostra approcci differenti: negli Stati Uniti, il Lanterman-Petris-Short Act del 1967 introdusse criteri di “pericolosità” per la deistituzionalizzazione e finanziamenti federali; in Italia, la legge Basaglia del 1978 superò il criterio della pericolosità a favore della “necessità clinica”, chiudendo i manicomi e sancendo il diritto universale alla salute mentale.
La tensione fra tutela e libertà, fra cura e autodeterminazione, resta oggi uno snodo cruciale, che richiede un dialogo interdisciplinare tra medici, psicologi, filosofi, giuristi e policy maker. ICONN nasce proprio per offrire una piattaforma globale in cui queste domande non rimangano senza risposta, ma trovino percorsi innovativi, fondati sul rispetto della dignità della persona e sulla promozione della salute mentale come bene comune.
Schizofrenia e libertà: una prospettiva neuroetica
La schizofrenia non è solo un insieme di sintomi clinici, ma una condizione che mette radicalmente in questione la libertà della persona. Quando parliamo di allucinazioni, deliri, deficit cognitivi e mancanza di consapevolezza di malattia (anosognosia), ci riferiamo a manifestazioni che non compromettono soltanto il comportamento, ma la struttura stessa della coscienza.
Da un punto di vista neuroetico, ciò significa che il paziente non è semplicemente “resistente” al trattamento, ma spesso si trova nell’impossibilità strutturale di scegliere consapevolmente. Ridurre la schizofrenia a un “rifiuto di cura” significa fraintendere la natura della malattia e lasciare la persona in balia di una progressiva frammentazione del sé. È necessario allora uno sguardo che superi il paradigma puramente clinico e riconosca che il cuore del problema è la perdita della capacità di esercitare pienamente la propria libertà. ICONN propone un modello bio-sistemico che stratifica la coscienza in diversi livelli di libertà – dall’intero-freedom legato alla percezione corporea fino al self-freedom connesso all’autodeterminazione – per comprendere come e dove la schizofrenia colpisca, e quindi come intervenire in maniera mirata.
Il modello stratificato della coscienza e la necessità dell’intervento
Secondo questa prospettiva, la coscienza umana non è un blocco monolitico, ma un sistema dinamico, strutturato a più livelli interconnessi. Ogni livello corrisponde a una forma di libertà: rispondere agli stati corporei interni (intero-freedom), reagire agli stimoli esterni (extero-freedom), integrare le percezioni (integrative-freedom), essere consapevoli delle proprie condizioni (aware-freedom), esercitare il controllo motorio e spaziale (proprio-freedom), fino alla più alta forma di autodeterminazione cosciente (self-freedom).
La schizofrenia agisce come una forza disgregante che scompagina questi strati: i deliri deformano l’integrazione percettiva, le allucinazioni invadono la percezione del mondo, l’anosognosia cancella la consapevolezza, fino a silenziare la libertà profonda di scelta e di valore. In queste condizioni, attendere che il paziente chieda aiuto equivale a ignorare la realtà neuropsicologica della malattia. Non si tratta di paternalismo, ma di responsabilità: riconoscere che la libertà compromessa può e deve essere sostenuta dall’esterno finché non si ricostruiscono i livelli necessari perché la persona torni a scegliere. L’intervento precoce e deciso diventa così non una violazione dell’autonomia, ma la condizione stessa per restituirla.
Dalla logica del rifiuto alla logica della dignità
Questa visione ha profonde implicazioni etiche e politiche. Non possiamo continuare a confondere l’abbandono terapeutico con il rispetto dell’autonomia, né lo stato di incuria sociale con compassione. Un approccio neuroetico al paziente che soffre di schizofrenia chiede di riconoscere che l’autonomia non è un punto di partenza sempre garantito, ma una conquista fragile che va ricostruita quando si sgretola. Politiche e pratiche sanitarie devono quindi basarsi non solo sulla riduzione dei sintomi, ma sul restauro progressivo della dignità personale, intesa come libertà stratificata e relazionale. Questo significa creare percorsi integrati che uniscano neuroscienze, psicoterapia, supporto sociale e intervento legale laddove necessario, con un unico obiettivo: ricostruire i ponti che riportano il paziente alla possibilità di vivere come soggetto libero e responsabile. ICONN, con la sua missione internazionale, intende offrire proprio questo: uno spazio in cui scienza ed etica collaborino per ridare voce a quella libertà ferita che la schizofrenia non cancella mai del tutto, ma che chiede di essere accompagnata e sostenuta per ritrovare dignità.
ICONN e il Convegno mondiale di Roma
In questo scenario si inserisce il lavoro dell’International College of Neuroethics and Neuroscience, la cui missione è integrare scienza, etica e politiche pubbliche per una longevità umana sana, sostenibile ed equa. La visione di ICONN è quella di una neuroetica non confinata all’accademia, ma capace di incidere sulla società, proteggendo i più fragili e promuovendo una cultura del rispetto e della cura.
Il primo Colloquio ICONN segna l’inizio di un percorso culturale più ampio, promosso dall’Istituto Internazionale di Neurobioetica (IINBE) e in sinergia con le iniziative del Vatican Longevity Summit: un laboratorio globale dove neuroscienze, etica e spiritualità si incontrano per costruire un modello di longevità che non sia soltanto biologico, ma anche mentale, relazionale e morale. In questo senso, ICONN rappresenta molto più di un network accademico: è una comunità di pensiero e di azione che mira a “restituire libertà alle libertà infrante”, a difendere la persona là dove la sofferenza psichica tende a cancellarne la voce. A Roma, in quei due giorni di fine settembre, si è acceso un segno di speranza per la scienza e per l’umanità.
Padre Alberto Carrara è Decano della Facoltà di Filosofia e Direttore del Gruppo di ricerca in Neurobioetica, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
Katherine Warburton è Medico, psichiatra forense, California Department of State Hospitals, Sacramento, CA, USA; University of California Davis, Division of Psychiatry and the Law, Sacramento, CA, USA
Stephen M. Stahl è Medico, psichiatra e psicofarmacologo, Distinguished Health Sciences Clinical Professor of Psychiatry and Neuroscience, University of California Riverside; Adjunct Professor of Psychiatry, University of California San Diego; Honorary Fellow, University of Cambridge; Director of Psychopharmacology and Senior Academic Advisor, California Department of State Hospitals
Per approfondimenti sul tema e su autori e docenti impegnati nel Corso di Perfezionamento in Neurobioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum clicca qui
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