“Aiutare a morire”? Nel mistero della fine si decide chi vogliamo essere

«Non possiamo essere neutrali. Non possiamo accettare una cultura dove l’ultima carezza diventa l’ultima iniezione»: la riflessione della direttrice del Centro aiuto alla Vita Mangiagalli
August 12, 2025
“Aiutare a morire”? Nel mistero della fine si decide chi vogliamo essere
La vita è sacra, sempre. Anche quando è fragile, stanca, piegata dalla malattia. Anche quando non parla più, non si muove più, e ci interroga con un silenzio che fa paura. Proprio lì, nel mistero della fine, si decide che tipo di umanità vogliamo essere.
E invece stiamo rischiando di diventare complici. Complici di una cultura che, con voce suadente, ci sussurra che è meglio lasciar andare. Che è più “umano” togliere il dolore togliendo la vita. Che sia un atto d’amore “aiutare a morire”. Ma è davvero amore? O stiamo semplicemente rinunciando ad amare fino in fondo?
Viviamo immersi in un cortocircuito. Ci indigniamo, giustamente, per le guerre, per i massacri, per i bambini sotto le bombe. Ci commuoviamo davanti alle immagini dei medici che curano sotto i bombardamenti, degli infermieri che stringono mani tremanti. Eppure, nella nostra società, quando la sofferenza è più silenziosa, più nascosta – in una corsia di ospedale, in una casa di riposo, in una stanza dove qualcuno non riesce più a dire “ho bisogno” – allora lì preferiamo chiudere la porta.
E la chiamiamo libertà. E la chiamiamo dignità. E il “fine vita” – quello spazio sacro in cui l’uomo dovrebbe essere più accompagnato che mai – sta diventando un territorio di solitudine legalizzata, travestita da “aiuto”.
Ma chi siamo diventati, se troviamo più “civilizzato” traghettare alla morte invece di restare accanto alla vita? Davvero possiamo accettare che il volontariato diventi, in alcuni contesti, una “presenza gentile” che ti prepara la fine anziché esserci per la vita?
È questa la solidarietà che vogliamo? Una solidarietà elegante, che sa accompagnare... ma verso l’uscita, in silenzio, in punta di piedi, per non essere più un peso per nessuno e talvolta rendendoti persino testimonial di una morte giusta, dovuta, dignitosa. Nei vari testamenti social, se li si ascolta bene, dietro quelle parole intrise di diritti, giustizia, dignità, si ode riecheggiare dolore e sofferenza. Si legge tra le righe “amava la vita così tanto da voler morire”. C’è qualcosa che non torna.
E qui non possiamo essere neutrali. Non possiamo accettare una cultura dove l’ultima carezza diventa l’ultima iniezione. E noi? Noi cristiani, noi operatori sanitari, noi famiglie, noi cittadini... stiamo diventando complici proprio quando restiamo in silenzio. Quando diciamo “è una scelta personale”. Quando parliamo di “fine vita” come se fosse un gesto intimo, privato, non una ferita sociale.
Nel Giubileo della Speranza dobbiamo avere il coraggio di dire che l’amore non abbandona. Che la vera compassione non accorcia il cammino ma lo percorre tutto, fino alla fine. Che la vera dignità non è nel morire prima ma nel sapere che qualcuno resterà anche quando tutto sembra inutile.
Morire bene non significa morire prima. Morire bene significa non morire da soli. Significa avere intorno persone che ti guardano ancora negli occhi, che ti chiamano per nome, che non smettono di credere che tu sei importante. Anche adesso. Soprattutto adesso. Scegliere la speranza è scegliere di amare di più.
Questo è il tempo di scegliere da che parte stare. Non con la scorciatoia, non con la resa, non con chi ha smesso di sperare. Ma con chi resta, con chi cura, con chi tiene la mano e dice: “Tu non sei solo. E non lo sarai mai”. Questo è il vero volto della speranza. Non uno slogan. Non un’idea astratta. Ma una presenza viva, che ama fino alla fine. Fino all’ultima luce. Fino all’ultimo respiro.
*Direttrice Centro di Aiuto alla Vita Mangiagalli, vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano

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