In Cambogia e Thailandia la fede è diventata un ponte
Suon Hang Ly è diventato il primo vescovo cambogiano della Chiesa rinata dopo le persecuzioni e alla sua ordinazione ha partecipato anche l’arcivescovo di Bangkok
In Asia ci sono conflitti nascosti che – sopiti per anni – all’improvviso tornano a prendersi la scena, in maniera anche molto violenta. È successo con la breve ma dolorosa guerra tra Cambogia e Thailandia che, dopo cinque giorni di intensi scontri avvenuti a fine luglio in un’area di confine, ha visto in queste ore i due Paesi firmare un accordo sulla situazione alla frontiera. I due primi ministri il 26 ottobre – in una cerimonia fortissimamente voluta dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in visita in questi giorni nella regione – hanno sottoscritto un documento che mira a consolidare il cessate il fuoco raggiunto già ai primi di agosto. Ci vuole molto ottimismo per pensare che tra Cambogia e Thailandia sia davvero risolta una crisi che è legata all’intreccio tra contenziosi storici di lunga data e spinte nazionalistiche interne, che fanno comodo oggi tanto al clan di Hun Sen a Phnom Penh quanto ai militari di Bangkok. Appena pochi giorni fa, per esempio, la stessa principessa Chulabhorn, la sorella del re della Thailandia, ha annunciato un’ingente donazione personale per incoraggiare la costruzione di un muro al confine con la Cambogia. Mentre si parla di nuove mine antiuomo che sarebbero comparse sul lato cambogiano di quella frontiera. Come in altre situazioni di conflitto, anche nel Sud-est asiatico far tacere le armi è solo il primo passo. Quello che dovrebbe aiutare ad affrontare davvero i problemi che anche solo poche giornate di guerra hanno lasciato in eredità; primo fra tutti la questione degli oltre 500mila cambogiani che lavoravano in Thailandia e ora sono stati costretti a fare ritorno in patria. Nonostante l’accordo, Bangkok almeno per ora, non sembra infatti avere intenzione di riaprire loro le sue frontiere e questo crea gravi problemi a chi è più povero. Proprio questo contesto così difficile, però, è stato nelle stesse settimane testimone anche di un segno importante di speranza. È successo l’8 settembre, il giorno in cui la piccolissima comunità cattolica cambogiana (poco più di 20mila fedeli, appena lo 0,13% della popolazione) ha potuto gioire per l’ordinazione episcopale di mons. Pierre Suon Hang Ly, un prete locale di 53 anni, scelto da papa Leone XIV come vicario apostolico coadiutore di Phnom Penh con il compito di prendere il posto (probabilmente presto) del missionario francese mons. Olivier Schmitthaeusler, l’attuale vicario. Suon Hang Ly è diventato così il primo vescovo cambogiano della Chiesa rinata appena 35 anni fa, dopo che la persecuzione genocida del regime dei khmer rossi era riuscita in pochi anni a sradicare quasi del tutto l’intera comunità cattolica locale, facendo morire di stenti anche mons. Joseph Chhmar Salas, l’unico altro prete khmer a cui (in circostanze drammatiche) era stato conferito il ministero dell’episcopato nel 1975. Nonostante le ostilità tra i due Paesi, all’ordinazione di mons. Suon Hang Ly a Phnom Penh ha partecipato anche l’arcivescovo di Bangkok, mons. Francis Xavier Vira Arpondratana, che in quell’occasione ha parlato dei «ponti di pace oltre le frontiere» che - pur nei loro numeri in apparenza insignificanti a queste latitudini - i cristiani provano lo stesso a costruire. «La Chiesa in Cambogia ha avuto un ruolo importante nella riconciliazione e nella guarigione dei sopravvissuti – ha raccontato ad AsiaNews mons. Suon Hang Ly, parlando delle ferite lasciate dal genocidio dei khmer rossi -. Ha offerto sostegno psicologico e spirituale; soprattutto ha portato il messaggio di Gesù sull’amore, il perdono e la fraternità. La preghiera e la meditazione alleviano i cuori. Non dimentichiamo le sofferenze, ma cerchiamo di perdonare chi ci ha fatto del male». Perché anche oggi la pace non si fermi a un accordo firmato dai potenti, in favore di telecamere.
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