La lettura di Gaza e le critiche speculari a chi non si fa bastare una sola versione
Caro Avvenire, la fame a Gaza è un fatto terribile e innegabile. La narrazione prevalente, tuttavia, sembra indicare un unico responsabile: Israele, con le sue azioni militari e le restrizioni all’ingresso degli aiuti. È una spiegazione forse troppo semplice. Mi chiedo se, concentrandoci su ciò che accade ai confini di Gaza, non stiamo trascurando ciò che accade all’interno. Esistono dinamiche di potere, un mercato nero, clan armati, una “legge del più forte” che determinano chi mangia e chi no? È una domanda che raramente sento porre. Le testimonianze sono quasi sempre filtrate da operatori umanitari. Persone coraggiose. Ma possiamo davvero pensare che, lavorando sotto il controllo di Hamas e di altre fazioni armate, possano raccontare tutta la verità senza pressioni? E poi ci sono le immagini. Vediamo bambini denutriti, scene che straziano il cuore. Ma in altre riprese notiamo una prevalenza di uomini, spesso in buono stato di salute, e l’assenza quasi totale di donne giovani. La fame a Gaza è una tragedia. Ma raccontarla come una storia con un solo colpevole non rischia di essere un’informazione incompleta? È possibile che la disperazione di alcuni sia utilizzata da altri come arma politica? Marco Silvan Genova Caro Avvenire, da molti anni vi leggo, ritenendovi il più credibile e coraggioso tra i quotidiani italiani. È forse una mia sensazione sbagliata, ma negli ultimi tempi mi è sembrato di notare una maggiore timidezza nell’affrontare temi quali le guerre in atto e le questioni politiche italiane ed internazionali. Un esempio è il silenzio sull’iniziativa pacifista e solidale della Global Sumud Flotilla promossa da quella società civile internazionale tanto cara al compianto papa Francesco. Dante Mantovani Brescia Cari lettori, le vostre domande vanno al cuore del lavoro giornalistico e non smettono di interrogare le competenze e le coscienze di chi opera nell’informazione con obiettività e spirito di servizio. I giornalisti di Avvenire si impegnano ogni giorno per restare dentro questo novero. Uno sforzo non sempre compreso all’esterno, come indicano le due lettere di diverso segno. Veniamo dunque ai rilievi sulle vicende di Gaza. Lei, caro Silvan, solleva il tema della presunta parzialità dei resoconti sulla sofferenza dei palestinesi rinchiusi nella Striscia. Vi sono elementi diversi da considerare. È Israele l’unico responsabile delle restrizioni all’ingresso di cibo? Sì, in quanto ha il controllo militare di tutte le vie di accesso e, oggi, condiziona la distribuzione degli aiuti. Certo, la situazione di guerra, provocata dall’attacco criminale di Hamas del 7 ottobre 2023, impone limitazioni logistiche generali. Non si può tuttavia trascurare che le regole del diritto umanitario internazionale impongono tutele per i civili in zone di combattimento e occupazione temporanea. Neppure si ricorda spesso che i bombardamenti sistematici delle Forze armate di Tel Aviv hanno gravemente compromesso anche la produzione interna di alimenti. Diverso è il discorso sulla ripartizione delle derrate che giungono a Gaza. È sicuramente vero che Hamas, dove ancora non è disarticolata, ha scorte che usa ai propri scopi (tra cui nutrire i giovani maschi reclutati per combattere), mentre cerca di accaparrarsi quel poco che viene (mal) distribuito. Non risulta, comunque, che sotto il deprecabile regime poliziesco del gruppo fondamentalista si morisse di fame, grazie al contributo fondamentale delle agenzie umanitarie ora costrette a fermarsi. Inoltre, pochi sostengono – Avvenire non mi pare lo abbia mai scritto – che nella Striscia non vi siano fenomeni di speculazione o di cinico sfruttamento della tragedia per arricchimento personale. Non si conoscono società composte solo di santi, tantomeno in contesti dove si è ogni giorno al “si salvi chi può”. Quanto alle immagini, concordo che tv e siti web tendono a selezionare quelle più forti e toccanti. C’è una manipolazione? Riflettiamo su questo. I media stranieri non sono ammessi. I grandi network si servono necessariamente di professionisti locali. Dall’inizio del conflitto sono stati uccisi circa 230 (triste record) tra giornalisti, cameraman e tecnici impegnati a documentare gli eventi. Anche ipotizzando che nessuna morte sia stata intenzionale da parte israeliana (quindi per impedire che si sapesse che cosa accade), il dato dei caduti indica perlomeno che i reporter si recano dove si svolgono azioni massicce e non se ne stanno a creare tranquilli set dove inscenare finte carestie (qualcuno ha messo in posa dei ragazzi, ma è stato scoperto). Dubitare, poi, dei racconti dei medici volontari negli ospedali presi di mira dai razzi e toccati anch’essi dalla penuria di cibo mi pare ingeneroso. Una delle storie più strazianti (e, se vuole, caro Silvan, più incredibili se inquadrata nei suoi dubbi) è quella della dottoressa che ha perso il marito e nove figli nel bombardamento della sua casa a Khan Younis. Fosse rimasta nella Striscia, non sarebbero mancati i negazionisti. Oggi, com’è noto, Alaa Al-Najjar è stata meritoriamente accolta dall’Italia con l’unico figlio sopravvissuto Adam e può testimoniare senza pressioni esterne ciò che ha visto e vissuto. Questo il quadro di oggi. A combattimenti finiti, speriamo al più presto, avremo un quadro più preciso e forse dovremo riconsiderare alcuni fatti o rileggere alcuni eventi alla luce di nuove informazioni. In questo tentativo di fare buon giornalismo, caro Mantovani, e di prendere posizione a favore di chi soffre e sta agli ultimi posti della considerazione generale – come ci aveva invitato a fare papa Francesco –, Avvenire non ha trascurato nessuna iniziativa di pace (si può probabilmente dire il contrario), nemmeno la Global Sumud Flotilla. Si tratta di un’impresa ulteriore per illuminare la crisi di Gaza, portare un piccolo sostegno concreto e mettersi in gioco direttamente da parte di chi vi aderisce. Va da sé che non può essere una missione risolutiva e che, anzi, potrebbe comportare forti rischi dati i precedenti e financo esacerbare le tensioni. In conclusione, cari lettori, sarebbe facile dire che critiche speculari da “destra” e da “sinistra” evidenziano l’equilibrio con cui seguiamo la guerra in Medio Oriente. Sono invece uno sprone ulteriore ad approfondire, non accontentarsi mai di una sola versione e cogliere ogni elemento significativo. Il ruolo del pubblico è questo: i giornali hanno il compito di esserne all’altezza. Senza tuttavia sacrificare la verità o le proprie idee per compiacere qualcuno. © riproduzione riservata
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