Il ruolo del patto tra Arabia e Pakistan sugli accordi di pace tra Israele e Hamas
L'accordo di mutua difesa tra i due Stati ha influenzato l'esito del vertice di Sharm el-Sheikh? In parte sì, ma c'è molto altro

Caro Avvenire,
il 17 settembre di quest’anno, a Riad, l'Arabia Saudita e il Pakistan hanno sottoscritto lo Strategic Mutual Defence Agreement (SMDA), un patto di mutua difesa che stabilisce come un attacco contro uno dei due Stati debba essere considerato un’aggressione nei confronti di entrambi. Nessuno in questi giorni parla di questo accordo ma io ho la sensazione non provata che c'entri con la pace scoppiata in Palestina e porti a valutare quello che è accaduto in modo diverso da come lo si sta facendo. Il mio sospetto è che Trump non sia stato il protagonista di questi accordi di pace ma che di fronte a questa esplicita alleanza tra Arabia Saudita e Pakistan abbia dovuto obbligare Israele alla pace. Il che significherebbe che poco importa il destino dei palestinesi, quella in atto è una pura operazione di potere.
Gianni Mereghetti
il 17 settembre di quest’anno, a Riad, l'Arabia Saudita e il Pakistan hanno sottoscritto lo Strategic Mutual Defence Agreement (SMDA), un patto di mutua difesa che stabilisce come un attacco contro uno dei due Stati debba essere considerato un’aggressione nei confronti di entrambi. Nessuno in questi giorni parla di questo accordo ma io ho la sensazione non provata che c'entri con la pace scoppiata in Palestina e porti a valutare quello che è accaduto in modo diverso da come lo si sta facendo. Il mio sospetto è che Trump non sia stato il protagonista di questi accordi di pace ma che di fronte a questa esplicita alleanza tra Arabia Saudita e Pakistan abbia dovuto obbligare Israele alla pace. Il che significherebbe che poco importa il destino dei palestinesi, quella in atto è una pura operazione di potere.
Gianni Mereghetti
Caro Mereghetti,
come tanti, neppure io sono sicuro che il presidente americano Trump abbia promosso l’accordo di pace tra Israele e Hamas per disinteressata compassione delle vittime e, in particolare, dei civili palestinesi uccisi. In questo concordo con lei. Se gli fosse stato a cuore evitare i massacri e ne avesse avuto la possibilità, avrebbe dovuto agire prima. È quindi giusto dare atto alla Casa Bianca di avere propiziato finalmente un cessate il fuoco – che speriamo si tramuti in reale fine del conflitto –, senza per questo fare di Trump un eroe morale, proprio perché la pressione su Netanyahu è arrivata quando di Gaza rimaneva ben poco. Questo non toglie che i superstiti di Hamas si stiano confermando feroci nemici non solo di Israele ma persino del proprio popolo. Prima hanno preteso come contropartita per la liberazione degli ostaggi israeliani – tenuti segretati per due anni in condizioni disumane – il rilascio di molti terroristi, insieme, va detto, ad alcuni esponenti della società civile palestinese a lungo in cella senza solide accuse. Quasi tutti avrebbero chiesto in primo luogo aiuti massicci e immediati per la gente senza cibo, casa né cure mediche, e garanzie sulla ricostruzione. Poi, appena usciti dai tunnel allo scoccare del cessate il fuoco, hanno imbracciato le armi per vendette interne, uccidendo presunti e veri «collaborazionisti» con l’occupante ebraico.
come tanti, neppure io sono sicuro che il presidente americano Trump abbia promosso l’accordo di pace tra Israele e Hamas per disinteressata compassione delle vittime e, in particolare, dei civili palestinesi uccisi. In questo concordo con lei. Se gli fosse stato a cuore evitare i massacri e ne avesse avuto la possibilità, avrebbe dovuto agire prima. È quindi giusto dare atto alla Casa Bianca di avere propiziato finalmente un cessate il fuoco – che speriamo si tramuti in reale fine del conflitto –, senza per questo fare di Trump un eroe morale, proprio perché la pressione su Netanyahu è arrivata quando di Gaza rimaneva ben poco. Questo non toglie che i superstiti di Hamas si stiano confermando feroci nemici non solo di Israele ma persino del proprio popolo. Prima hanno preteso come contropartita per la liberazione degli ostaggi israeliani – tenuti segretati per due anni in condizioni disumane – il rilascio di molti terroristi, insieme, va detto, ad alcuni esponenti della società civile palestinese a lungo in cella senza solide accuse. Quasi tutti avrebbero chiesto in primo luogo aiuti massicci e immediati per la gente senza cibo, casa né cure mediche, e garanzie sulla ricostruzione. Poi, appena usciti dai tunnel allo scoccare del cessate il fuoco, hanno imbracciato le armi per vendette interne, uccidendo presunti e veri «collaborazionisti» con l’occupante ebraico.
Tutto questo, caro Mereghetti, non fa sperare per un rapido percorso verso la convivenza pacifica di due popoli, tanto meno con due Stati sovrani. Ma veniamo al ruolo dell’accordo tra Arabia Saudita e Pakistan. Le dico onestamente che non mi pare sia stato un game-changer (un elemento decisivo) nello scacchiere regionale, come direbbero gli analisti internazionali. Potrebbe essere piuttosto letto quale segnale strategico che ha aumentato l’urgenza di stabilizzare il teatro israelo-palestinese e più in generale il Medio Oriente, dopo settimane di escalation, soprattutto a motivo dell’attacco israeliano a Doha contro il quartier generale dei leader di Hamas espatriati, il 9 settembre scorso. Quella mossa voluta da Netanyahu contro il parere della sua stessa intelligence è stata un errore grave da parte di Tel Aviv – sia per il fallimento sostanziale sia per le conseguenze che ha innescato. Infatti, da lì molti Stati arabo-islamici si sono allarmati per l’"espansionismo" israeliano e la scarsa protezione che l’alleato americano è in grado di garantire loro. Forse lo stesso Trump non ha preso bene l’azione ostile nel Paese, il Qatar, che ospita una grande e strategica base militare americana. Solo gli storici ci diranno fra qualche anno come sono andate davvero le cose dietro le quinte.
Resta il fatto che la clausola di mutua assistenza militare compreso, si presume, l’ombrello nucleare del Pakistan (unica nazione islamica ad avere armi atomiche) dice che nell’area si stanno diversificando le garanzie di sicurezza e non si dà per scontata l’affidabilità degli Usa. D’altra parte, sembra che la capacità e i meccanismi di una tale intesa (che non s’improvvisa in pochi giorni) restino limitati. Il messaggio ha un carattere soprattutto politico, rivolto a Tel Aviv, Washington e New Delhi (l’India è tradizionale rivale del Pakistan e potenza indù segnata da problemi di convivenza con la componente musulmana). In definitiva, è stato il contesto generale (in cui rientra anche l’accordo in questione) ad aumentare gli incentivi per numerosi attori arabi a sostenere il percorso negoziale spinto dagli Stati Uniti e a convincere Hamas a cedere su prigionieri e arsenali pesanti. Lo indica il fatto che il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, nel suo intervento alla recente Assemblea generale delle Nazioni Unite, abbia salutato positivamente (e sorprendentemente) il patto Arabia-Pakistan come l’inizio di un «sistema di sicurezza regionale complessivo», opposto all’allargamento degli attacchi di Israele. Come evolverà il drammatico quadro attuale dipende, a mio avviso, dall’impegno continuativo dell’America. Che, allo stato attuale delle cose, non è qualcosa su cui possiamo avere certezze.
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