Il fumo uccide, lo Stato incassa. Vero in parte. Parliamone di più

Il sistema sanitario spende 1,6 miliardi solo per le ospedalizzazioni legate a un gruppo ristretto di malattie correlate al consumo. La via radicale del governo britannico
October 31, 2025
Caro Avvenire,
ho sentito alla radio che è di quindici miliardi di euro l’introito annuo dello Stato dal monopolio dei tabacchi, ventisei miliardi il costo sanitario del fumo. La pubblicità ipocrita sui rischi o l’induzione alle sigarette elettroniche con profumi e sapori vari e la promessa della quasi innocuità non migliorano la situazione. In Australia, dove un pacchetto di sigarette costa trenta euro, c’è stata una drastica, quasi totale riduzione dei consumi. La politica, che in Italia con la finanziaria quest’anno ha elevato di un miliardo gli introiti del comparto, dovrebbe avere una visione a più lungo termine, cosa improbabile in quanto una stretta ridurrebbe l’introito ma i costi sanitari per molti anni rimarrebbero elevati. Ragion per cui c’è da dedurre che purtroppo nessuno dei politici oggi e domani al governo penserà di proporla. 
Giuseppe Gabriele
Caro Gabriele,
cominciamo con il dato più tragico: sigari e sigarette di varia tipologia in Italia contribuiscono a provocare fra le 70 e le 90mila vittime l’anno, peggio di una guerra sanguinosa. Basterebbe questo dato per mobilitare le risorse del Paese al fine di salvare moltissime vite in futuro (per tanti tabagisti, come lei giustamente sottolinea, ormai il danno è fatto e si può solo sperare in cure più efficaci per le numerose patologie coinvolte). Ovviamente, se imponessimo misure draconiane contro tutti gli svaghi e i piaceri (comprese le gite in auto, i bagni in mare, gli sport rischiosi e l’eccesso di cibo) ridurremmo i decessi, ma non necessariamente aumenteremmo il benessere totale, posto che siamo esseri mortali, desiderosi di condurre un’esistenza soddisfacente e che le scelte individuali si muovono in direzioni diverse. Possiamo però incidere su alcuni comportamenti dannosi, come il consumo di sigarette, intervenendo sul prezzo di acquisto. Sembra documentato anche dal caso australiano che aumenti consistenti delle accise comportino rapide riduzioni della prevalenza del fumo. Una crescita del 25% della tassazione ha prodotto un calo dei fumatori abituali di quasi un punto percentuale. La strategia fiscale può quindi funzionare come deterrente. Tuttavia, come detto, le persone spesso vanno contro quelli che appaiono i loro migliori interessi. E proprio in Australia si rileva una crescente quota di mercato illegale (leggi: contrabbando) che indebolisce l’efficacia delle politiche fiscali.
Veniamo all’Italia, dove il fumo rimane un fenomeno in (troppo) lenta diminuzione. Nonostante decenni di campagne di prevenzione e limitazioni legislative, il numero degli amanti del tabacco rimane considerevole: nella fascia fra i 18 e i 69 anni è circa un quarto della popolazione mentre, considerando tutti gli over 15, il dato si attesta attorno al 18%, con dodici sigarette al giorno in media. Il sistema sanitario sostiene costi ingenti: almeno 1,6 miliardi solo per le ospedalizzazioni legate a un gruppo ristretto di malattie correlate al consumo. Sommando l’intero impatto sanitario e sociale, diretto e indiretto, si superano i 26 miliardi di euro annui. Accanto alle sigarette tradizionali oggi avanzano dispositivi elettronici e tabacco riscaldato, che in pochi anni hanno triplicato la loro diffusione. Si tratta di un mutamento che apre nuove questioni: dal danno certo del fumo combusto alle incertezze, scientifiche e regolative, circa le nuove forme di nicotina.
Non si può, tuttavia, dare tutte le colpe alla classe politica, come fa lei, caro Gabriele; tra l’altro, non esiste più il Monopolio statale. Dalla legge Sirchia (in vigore dal 2005) le limitazioni alla sigaretta sono passate da tutti i locali pubblici e chiusi fino a tutte le aree pubbliche o a uso pubblico all’aperto, salvo “aree isolate dove sia possibile mantenere almeno 10 metri di distanza dagli altri”, introdotte, per esempio, quest’anno dal Comune di Milano. A Torino, lo spazio minimo è fissato in 5 metri. Una difficoltà, certo, resta quella del controllo e delle sanzioni: alla Stazione Centrale, l’altro giorno, vari viaggiatori fumavano a un metro da me. E d’altra parte, sarebbe stato impossibile stare a dieci metri da qualunque altro passeggero...
Dunque, “fare cassa” sui tabagisti non è cinico, perché all’aumento delle accise corrisponde una potenziale diminuzione del danno. E se tanti persistono nel consumo almeno finanziano i servizi sanitari ai quali poi dovranno rivolgersi. A meno di scegliere la via radicale adottata dal governo britannico, che recentemente ha avviato una riforma mirata a creare una generazione “smoke-free”. La legge, ancora in discussione alla Camera dei Lord, stabilisce che chi è nato dal 1° gennaio 2009 in poi non potrà mai legalmente acquistare tabacco nel Regno Unito, nemmeno una volta maggiorenne. Il divieto non tocca i fumatori attuali, ma prova a rendere impossibile l’ingresso dei più giovani nel mercato delle sigarette. L’obiettivo, ovviamente, è azzerare gradualmente il tabagismo, riducendo nel lungo periodo decessi precoci e costi sanitari associati. La misura ha però sollevato comprensibili discussioni sulla libertà personale e sulla coerenza con la legislazione in merito ad altre sostanze potenzialmente dannose vendute senza restrizioni. Non sono scelte facili, com’è evidente. Meglio sarebbe puntare ancora di più su educazione culturale e prevenzione, andando contro gli interessi dei grandi produttori, ancora molto influenti come lobbisti. E qui la politica ha certamente un ruolo importante.

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