Femminicidio è una parola necessaria? Sì, se aiuta a educare e prevenire
Il lettore si chiede se creare una categoria di super-omicidio può avere un effetto giustificatorio. La sfida è porre al centro della società il rispetto per ogni persona

Caro Avvenire,
mi rendo conto che la mia riflessione è contro corrente e rischia di venir fraintesa. Circa il termine “femminicidio”, quando venne introdotta questa definizione non condivisi (al netto della necessità di arginare la deriva di odio cui stiamo assistendo) l’istituzione di una nuova espressione rispetto al “normale” omicidio. Creare una categoria di super-omicidio può avere, su menti annebbiate dalla follia del risentimento, un effetto giustificatorio. L’uomo convinto di essere vittima di inaccettabile ingiustizia da parte del genere femminile trova conferma del suo livore nel fatto che la nuova categoria istituita è prova che il comportamento che lo porta alla follia omicida è riferibile ad un “gruppo”: come se la sua avversione per la donna che lo ha “tradito” (parlo cercando di trasferirmi nella mente di quelle persone) avesse un avallo esteso anche in larga scala. Ripeto: il mio giudizio è basato su pura sensazione; possibile che, per una minima parte di casi sia valido?
Stefano Ziliani
Monticelli d’Ongina (PC)
mi rendo conto che la mia riflessione è contro corrente e rischia di venir fraintesa. Circa il termine “femminicidio”, quando venne introdotta questa definizione non condivisi (al netto della necessità di arginare la deriva di odio cui stiamo assistendo) l’istituzione di una nuova espressione rispetto al “normale” omicidio. Creare una categoria di super-omicidio può avere, su menti annebbiate dalla follia del risentimento, un effetto giustificatorio. L’uomo convinto di essere vittima di inaccettabile ingiustizia da parte del genere femminile trova conferma del suo livore nel fatto che la nuova categoria istituita è prova che il comportamento che lo porta alla follia omicida è riferibile ad un “gruppo”: come se la sua avversione per la donna che lo ha “tradito” (parlo cercando di trasferirmi nella mente di quelle persone) avesse un avallo esteso anche in larga scala. Ripeto: il mio giudizio è basato su pura sensazione; possibile che, per una minima parte di casi sia valido?
Stefano Ziliani
Monticelli d’Ongina (PC)
Caro Ziliani,
lei si avventura in un terreno intricato e pieno di insidie culturali. Ma non dobbiamo avere paura di affrontare questioni divisive. Basta farlo con limpida volontà di capire e cercare risposte solide per quanto possibile. Il termine “femminicidio” ci pare oggi piuttosto consueto, ed è un tragico segnale del perdurare della violenza contro le donne. Si tratta tuttavia di un neologismo relativamente recente in italiano, se si considera che intorno al 2010 ancora in titoli di (pochi) articoli e libri si alternavano le parole “femicidio” (calco dall’inglese “femicide”) e “femminicidio”. Ha poi prevalso il secondo. Il concetto di omicidio di una donna da parte di un uomo per il fatto di essere donna è stato attribuito alla studiosa Diana E. H. Russell che l’avrebbe usato per la prima volta nel 1976, ma la parola esisteva già nel mondo anglosassone, seppure con significato diverso. Com’è noto, quando nasce e circola un termine inedito, non stiamo solo dando un nome a qualcosa che già c’era. Stiamo anche imparando a riconoscerlo come fenomeno distinto, a vederlo e a parlarne in modo diverso. Le parole, infatti, non si limitano a descrivere la realtà: spesso la rendono visibile, la mettono a fuoco e le danno un peso pubblico. Per questo il linguaggio può influenzare ciò che la società vede, discute e decide di affrontare anche sul piano culturale, mediatico e legale. Un esempio simile è quello del “mobbing”: in precedenza ci si riferiva vagamente a “problemi sul lavoro”, ma quando è entrata in uso una definizione precisa, il fenomeno è stato riconosciuto quale dinamica organizzativa e psicologica specifica, con conseguenze concrete nella consapevolezza sociale e nella tutela dei lavoratori. Non è un sospetto del tutto infondato che la mancanza di una parola fosse dovuta alla scarsa attenzione che una società ancora fortemente maschilista (se non vogliamo aprire un altro capitolo controverso sul “patriarcato”) riservava alla violenza sulle donne. Era probabilmente più diffusa di oggi, ma se ne parlava molto meno, soprattutto sui media. Se le notizie quasi quotidiane di femminicidi che tristemente ci raggiungono sembrano evidenziare una tendenza in crescita, è solo perché prima eravamo “ciechi” di fronte a quei fatti tragici.
lei si avventura in un terreno intricato e pieno di insidie culturali. Ma non dobbiamo avere paura di affrontare questioni divisive. Basta farlo con limpida volontà di capire e cercare risposte solide per quanto possibile. Il termine “femminicidio” ci pare oggi piuttosto consueto, ed è un tragico segnale del perdurare della violenza contro le donne. Si tratta tuttavia di un neologismo relativamente recente in italiano, se si considera che intorno al 2010 ancora in titoli di (pochi) articoli e libri si alternavano le parole “femicidio” (calco dall’inglese “femicide”) e “femminicidio”. Ha poi prevalso il secondo. Il concetto di omicidio di una donna da parte di un uomo per il fatto di essere donna è stato attribuito alla studiosa Diana E. H. Russell che l’avrebbe usato per la prima volta nel 1976, ma la parola esisteva già nel mondo anglosassone, seppure con significato diverso. Com’è noto, quando nasce e circola un termine inedito, non stiamo solo dando un nome a qualcosa che già c’era. Stiamo anche imparando a riconoscerlo come fenomeno distinto, a vederlo e a parlarne in modo diverso. Le parole, infatti, non si limitano a descrivere la realtà: spesso la rendono visibile, la mettono a fuoco e le danno un peso pubblico. Per questo il linguaggio può influenzare ciò che la società vede, discute e decide di affrontare anche sul piano culturale, mediatico e legale. Un esempio simile è quello del “mobbing”: in precedenza ci si riferiva vagamente a “problemi sul lavoro”, ma quando è entrata in uso una definizione precisa, il fenomeno è stato riconosciuto quale dinamica organizzativa e psicologica specifica, con conseguenze concrete nella consapevolezza sociale e nella tutela dei lavoratori. Non è un sospetto del tutto infondato che la mancanza di una parola fosse dovuta alla scarsa attenzione che una società ancora fortemente maschilista (se non vogliamo aprire un altro capitolo controverso sul “patriarcato”) riservava alla violenza sulle donne. Era probabilmente più diffusa di oggi, ma se ne parlava molto meno, soprattutto sui media. Se le notizie quasi quotidiane di femminicidi che tristemente ci raggiungono sembrano evidenziare una tendenza in crescita, è solo perché prima eravamo “ciechi” di fronte a quei fatti tragici.
Basta questo, caro Ziliani, per risolvere il suo dubbio? Penso di no. Perché in effetti la prospettazione di pene aggravate per gli autori dei reati via via resi più definiti (si pensi al decreto legge 93/2013 per il contrasto della violenza di genere; alla legge 69 del 2019, detta Codice Rosso, e al disegno di legge 1433 del 2025, attualmente in discussione, che punta a introdurre nel codice penale una fattispecie autonoma del delitto di femminicidio) non ha portato a una riduzione significativa dei delitti (non pensiamo solo alle donne uccise, ma anche a quelle ferite gravemente, aggredite, minacciate, offese…). Non che introdurre una categoria concettuale susciti imitazione o dia legittimazione a chi viola la legge. Penso che il problema principale rimanga di prevenzione, sia nella forma dell’educazione dei maschi sia nella forma della tutela delle donne a rischio, attraverso misure più efficaci di quelle messe in atto fino a ora. Perché non dissuadono sanzioni più dure? A mio parere, in gran parte chi agisce in odio a ex mogli o compagne mira in modo distorto a una forma mai giustificabile di vendetta, che non si arresta di fronte alla prospettiva di una successiva condanna. In vari casi, infatti, segue un tentativo o un suicidio riuscito. Solo ponendo al centro della società il profondo rispetto per ogni persona e la riprovazione pubblica per tutti i comportamenti meno che corretti potremo ridimensionare un fenomeno che la sola repressione penale non riesce ad arginare.
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