Sia e le immigrate: rifugio dalla violenza
giovedì 24 dicembre 2020

Le autorità raccomandano di rimanere a casa al sicuro dal contagio, ma che accade quando "casa" non è un posto sicuro? Nel gigantesco agglomerato frontaliero di Mae Sot, nel nord della Thailandia, vivono 300mila persone arrivate dalla vicina Myanmar (Birmania). Immigrati legali e illegali, in una enclave da cui ora non è possibile uscire a causa della pandemia. «I casi di violenza domestica sono aumentati del 30 per cento», racconta Watcharapon "Sia" Kukaewkasem via Whatsapp dalla sua abitazione di Mae Sot.

Esile, capelli scuri, lineamenti asiatici con la "variante" dell'etnia Akha, Sia ha aperto una casa-rifugio: accoglie le donne maltrattate, le raggruppa in piccoli nuclei di auto-aiuto e le obbliga a guardare in faccia la realtà di una relazione malata, così come organizza incontri nelle scuole per spiegare alle ragazze come difendersi dagli abusi sessuali.

«La violenza sulle donne all'interno della famiglia qui è considerata una cosa privata. Se una moglie si rivolge alla polizia, spesso le viene consigliato di fare pace con il marito», racconta Sia, 39 anni, che dopo dieci anni di lavoro come operatrice sociale ha deciso di creare una sua organizzazione, Freedom restoration project (Frp). Sia sa di cosa parla, e ancora il ricordo la turba: la sua stessa famiglia era immigrata, viveva in una catapecchia senza pavimento, senza acqua corrente né elettricità. «Mio fratello e io abbiamo visto molte volte mia madre picchiata da mio padre, l'uomo che avrebbe dovuto amarla e proteggerla». Una volta la madre cercò di fuggire e il pestaggio avvenne per strada, davanti ai due figli di 7 e 5 anni e a numerosi passanti. «Nessuno intervenne ad aiutare mia mamma», ricorda Sia.

Tra le decine di migliaia di famiglie birmane immigrate a Mae Sot, metà trae sostentamento nel settore delle costruzioni, ora bloccato dalla pandemia. «Senza lavoro, stipati in case di una sola stanza, con i bambini lontani dalla scuola, le tensioni aumentano e le donne ne sono le prime vittime», continua Sia. Una delle frequentatrici del Freedom Restoration Project ha raccontato che il marito, guidatore di mototaxi ora senza lavoro, la incolpa per la miserabile situazione in cui versano, la picchia davanti ai figli e diverse volte l'ha minacciata di morte con un coltello in mano. «La violenza è "normalizzata" nella comunità immigrata.

La maggior parte delle donne non considera lasciare il marito come un'opzione. Anzi, pensano di meritarsi le botte perché non riescono a badare ai figli o perché non cucinano bene. Le sopravvissute ad abusi domestici spesso non cercano aiuto perché temono di essere biasimate dalla comunità. Le donne migranti sono sole, non hanno accanto le famiglie d'origine e ora i confini sono chiusi e quindi non possono tornare indietro. Non hanno un altro posto dove mettersi in salvo».

La casa di Sia è l'unico rifugio a Mae Sot. «Per l'ospitalità in casi di emergenza possiamo contare su alcune stanze in abitazioni private», continua. L'obiettivo di Sia, che si è specializzata negli Stati Uniti, è di aprire percorsi di dialogo e di sostegno rivolti agli uomini abusanti. «Molti sono cresciuti vedendo i loro stessi padri picchiare le madri e le sorelle, così sembra normale comportarsi così. Ma ora i padri devono capire come gestire le loro frustrazioni in un modo diverso e cambiare atteggiamento».

Di certo l'esperienza di abuso vissuta nell'infanzia ha plasmato la vita di Sia. «Da piccola volevo diventare Miss Universo, una hostess o una ballerina. Sono diventata molto più di quello che sognavo: lavoro perché le donne abbiano il diritto di essere al sicuro».

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